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Cronaca
07 Agosto 2025 - 19:00
Ancora un suicidio nel carcere "Lorusso e Cutugno": è una strage silenziosa
Aveva 45 anni. Era italiano. Ed è morto da solo, nel silenzio di una cella del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo, nel primo pomeriggio di oggi, giovedì 7 agosto. Un cappio rudimentale per un gesto estremo. Una tragedia che non è solo individuale, ma collettiva. Perché è la cinquantesima volta, nel 2025, che un detenuto sceglie di farla finita. E la cinquantatreesima se si contano anche gli agenti penitenziari e il personale morto tra le mura delle prigioni italiane.
«Il 53esimo morto in carcere per suicidio in Italia nel 2025 pone in dubbio la stessa organizzazione dell’amministrazione penitenziaria», dichiara senza giri di parole Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. E rincara la dose: «Sosteniamo che sia solo una delle punte dell’iceberg di problemi che riguardano anche telefonini, aggressioni e sostanze stupefacenti. Gli agenti in servizio sono sempre meno, in alcuni casi falcidiati da procedimenti disciplinari e penali. È un’organizzazione da rivedere, se le carceri devono continuare a funzionare per la collettività. Commissariamo il Dap o chiudiamolo del tutto e poniamo la polizia penitenziaria alle dipendenze di un altro dicastero che sappia gestire una forza di polizia dello Stato che ha anche compiti risocializzanti».
Parole pesanti. Come pietre. Ma forse inevitabili, di fronte a numeri che gridano vendetta e a una realtà che si finge di non vedere.
Eppure, c’era chi aveva provato a dare un segnale. Solo ieri, proprio ieri, Roberto Capra, avvocato penalista torinese e presidente della Camera Penale del Piemonte Occidentale “Vittorio Chiusano”, aveva annunciato pubblicamente il suo digiuno. Un gesto simbolico. Un atto di denuncia. «Oggi digiuno per 50 persone dimenticate e perché non voglio rassegnarmi a vedere ancora diritti violati e dignità calpestate nelle nostre carceri», aveva scritto, aderendo alla campagna nazionale di digiuno a staffetta lanciata da Valentina Alberta, avvocata, e Stefano Celli, magistrato.
Quel messaggio, stringato ma potente, oggi risuona come un monito. Come un grido nel vuoto. Quelle “50 persone dimenticate” ora sono diventate 51. E quell’ennesima morte getta una luce sinistra sul senso di una protesta silenziosa che qualcuno avrebbe potuto considerare retorica, o ideologica. Ma che invece parla di realtà.
Una realtà fatta di isolamento, sofferenza, disperazione. Dove il carcere continua a essere luogo di pena e non di rieducazione. Dove la dignità, spesso, è un lusso. Dove chi sbaglia paga, ma paga due volte: con la condanna e con condizioni di vita che scivolano oltre i confini dell’umanità.
Capra e i suoi colleghi, scegliendo di digiunare, non chiedono pietà. Chiedono giustizia. Chiedono attenzione. Chiedono un gesto politico concreto: l’approvazione della proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata, che servirebbe a ridurre la pressione detentiva e ad arginare il sovraffollamento. Perché no, non è normale morire in carcere. Non è normale fingere che tutto vada bene. Non è normale continuare a contare morti come se fossero danni collaterali.
«Nessuno si salverà da solo, nessuno sarà libero se non lo saranno anche i detenuti», diceva Marco Pannella. E mai come oggi, quelle parole risuonano attuali.
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