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Cronaca

Arrestato a Carignano un affiliato di Cosa nostra: condannato a 8 anni per mafia

Il 46enne, legato ai mandamenti di Belmonte Mezzagno e Misilmeri, era stato coinvolto nell’operazione “Cassandra” dopo i blitz di “Cupola 2.0”. Viveva in Piemonte da anni, ma è stato rintracciato e arrestato dalla squadra mobile di Torino su mandato della Procura di Palermo

Arrestato a Carignano un affiliato di Cosa nostra: condannato a 8 anni per mafia

Arrestato a Carignano un affiliato di Cosa nostra: condannato a 8 anni per mafia

Aveva trovato rifugio tranquillo in Piemonte, nella cintura sud di Torino, a Carignano, dove cercava di vivere nell’ombra, lontano dai riflettori e dai mandati d’arresto. Ma per lui, 46 anni, siciliano d’origine e con alle spalle una condanna pesantissima per mafia, la latitanza è finita. È stato arrestato dagli agenti della squadra mobile di Torino, guidati dal dirigente Davide Corazzini, in esecuzione di un ordine di carcerazione emesso dalla Procura della Repubblica di Palermo.

Il provvedimento, ormai definitivo, lo condanna a una pena di 8 anni e 4 mesi di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso, ai sensi dell’articolo 416 bis del codice penale. Un’accusa che pesa come un macigno, perché inserisce il suo nome all’interno della ragnatela della nuova mafia siciliana: quella che, dopo gli anni del dominio stragista e poi del silenzio, ha provato a rialzare la testa e ricostruire la “Cupola”.

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Il 46enne era organico al mandamento di Belmonte Mezzagno e Misilmeri, due centrali operative storicamente strategiche nel tessuto mafioso del Palermitano. Non era uno qualunque: secondo le indagini, svolgeva una funzione di raccordo tra le dinamiche locali e i vertici dell’organizzazione. I magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo lo avevano già identificato nel corso di una vasta operazione del 2020, battezzata “Cassandra”, che aveva smantellato un’intera rete criminale composta da 25 persone, di cui sei arrestate in carcere e due ai domiciliari.

Quel blitz, scattato nel mese di maggio di cinque anni fa, fu l’ennesimo tentativo dello Stato di interrompere il processo di riorganizzazione della mafia siciliana. L’operazione “Cassandra” seguiva a ruota quella, ancor più vasta e clamorosa, chiamata “Cupola 2.0”, del dicembre 2018, che aveva portato all’arresto di boss e gregari impegnati a ricostruire la commissione provinciale di Palermo, nel solco della vecchia mafia corleonese.

Nel 2020, con “Cassandra”, venne smascherato non solo un sistema di estorsioni, ma anche un progetto di infiltrazione politica. Gli inquirenti scoprirono infatti la nascita di una lista civica vicina al clan, con l’obiettivo di condizionare l’amministrazione comunale di Misilmeri. Gli uomini di Cosa nostra non solo imponevano il pizzo e controllavano gli appalti, ma cercavano di diventare istituzione, fingendosi paladini della legalità per accedere a fondi pubblici e manipolare i meccanismi democratici.

In questo contesto torbido e profondamente inquietante si collocava anche la figura del 46enne arrestato oggi in Piemonte. Le intercettazioni telefoniche, ambientali, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e il materiale investigativo raccolto nel corso degli anni, avevano disegnato un quadro solido della sua partecipazione attiva alla vita del mandamento. Non era un uomo da panchina: faceva parte della catena di comando, maneggiava decisioni operative, trattava con altri uomini d’onore, e probabilmente si occupava della movimentazione di capitali e della gestione dei rapporti fuori dalla Sicilia.

Secondo alcune ricostruzioni investigative, l’uomo si sarebbe trasferito in Piemonte dopo l’operazione Cassandra, adottando un basso profilo, vivendo in modo defilato e senza attirare troppo l’attenzione.

Ma nonostante la distanza, i legami con la Sicilia non si erano mai spezzati, e i suoi trascorsi sono rimasti impressi nei faldoni della Procura antimafia. Così, mentre a Palermo si chiudevano i processi e si emettevano le condanne, a Torino la squadra mobile lo teneva sott’occhio. E quando la sentenza è divenuta definitiva, è scattato l’arresto.

Nessuna resistenza al momento della cattura, solo lo sguardo di chi sa che prima o poi il conto con la giustizia arriva. Sarà ora trasferito in carcere per scontare la condanna, ma il suo arresto rappresenta molto più che una formalità: è un nuovo colpo alla rete di Cosa nostra, un segnale concreto che, anche a distanza di anni, le indagini antimafia non dimenticano, e che le condanne non scadono come il latte.

Questo arresto conferma - se ancora ce ne fosse stato il bisogno - la lunga ombra delle organizzazioni mafiose sul Nord Italia. Carignano, cintura torinese, teatro di una cattura dal valore simbolico enorme. L’ennesima conferma che la mafia non è più solo “cosa del Sud”, ma una presenza tentacolare, silente, mimetizzata nel tessuto urbano, sociale ed economico del Paese. Dalle estorsioni alla politica, dagli appalti ai cantieri edili, fino alle false cooperative e alla ristorazione: le mafie operano dove ci sono soldi, consenso e silenzi.

L’operazione Cupola 2.0 e i suoi “sequel” dimostrano che la mafia cambia pelle, ma non abitudini.  

Operazione “Cassandra”: così la mafia voleva ricostruire la Cupola e prendersi Misilmeri

Avevano un progetto preciso: ricostruire la Cupola di Cosa nostra, rimettere insieme i pezzi dopo il terremoto giudiziario del 2018, e riprendersi il controllo politico, economico e militare di un territorio da sempre strategico per gli affari mafiosi. Con l’operazione “Cassandra”, la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo ha smascherato nel maggio 2020 uno dei più ambiziosi tentativi di rilancio dell’organizzazione mafiosa nel Palermitano, colpendo il mandamento di Belmonte Mezzagno e Misilmeri, snodo chiave di traffici, estorsioni e strategie criminali.

I nomi emersi dall’indagine sono noti agli investigatori da tempo. In carcere finiscono personaggi come Salvatore Sciarabba (classe 1950), boss storico già reggente di Misilmeri, Giuseppe Bonanno (1960), figura di spicco di Belmonte Mezzagno, e Stefano Casella (1978), arrestato proprio in Piemonte, a oltre mille chilometri dalla Sicilia. A questi si aggiungono Claudio Nocilla, Alessandro Imparato, e altri affiliati come Giuseppe Rizzo e Giuseppe Contorno, per i quali sono disposti gli arresti domiciliari. In totale, otto le misure cautelari, ma il numero complessivo degli indagati sale a 25.

L’operazione – il cui nome richiama l’omonima sacerdotessa dell’epica greca, inascoltata nelle sue profezie – non poteva che essere un monito al Paese: la mafia non è scomparsa, semplicemente si è trasformata. E in quel 2020, mentre il mondo combatteva contro la pandemia, a Misilmeri e Belmonte Mezzagno Cosa nostra progettava il ritorno al potere. Con un’idea chiara: controllare le elezioni comunali attraverso la creazione di una lista civica “di facciata”, composta da “cristiani giusti”, come dicevano intercettati gli uomini del clan, che avrebbero garantito fedeltà agli interessi mafiosi pur senza apparire formalmente collegati.

Ma non c’era solo la politica tra gli obiettivi. L’inchiesta documenta episodi di estorsione brutale – come la richiesta di 12.000 euro a un’impresa edile impegnata in un cantiere locale – e cavalli di ritorno, ovvero il pagamento di somme di denaro per la restituzione di mezzi rubati, come camion ed escavatori. In un caso emblematico, la “tangente” richiesta fu di 2.800 euro.

Le intercettazioni registrano con chiarezza il linguaggio della mafia che ritorna: “Ora ci siamo rimessi a posto”, “Ci vogliono uomini puliti”, “Dobbiamo ricompattare il territorio”. Sciarabba e Bonanno si comportano da veri e propri manager criminali, organizzando summit, distribuendo incarichi, mantenendo contatti con altri mandamenti e supervisionando le operazioni più delicate.

Una parte dell’organizzazione si occupava anche della distribuzione di banconote false da 20 e 50 euro, utilizzate per piccoli acquisti, spesso in danno di commercianti inconsapevoli. Un’attività marginale rispetto alle grandi estorsioni, ma emblematica della capillarità del sistema mafioso: ogni canale di guadagno veniva sfruttato, anche il più banale.

Dietro le quinte, un mandamento che voleva riorganizzarsi come una piccola holding: affari, appalti, politica, gestione del consenso, intimidazioni. L’obiettivo era uno solo: il controllo totale. E quando il clan non riusciva a ottenere quello che voleva con la persuasione, passava alla violenza.

Ma qualcosa andò storto. Le forze dell’ordine, con il supporto della DDA di Palermo e della squadra mobile, intercettano, osservano, documentano. Fino a stringere il cerchio e partire con i fermi. Tra i colpiti anche alcuni soggetti già emersi nell’operazione Cupola 2.0, che nel 2018 aveva fatto saltare in aria la riorganizzazione della commissione provinciale di Cosa nostra, con decine di arresti e una chiara dimostrazione che la mafia stava tornando a strutturarsi.

“Cassandra” ha così rappresentato il secondo tempo di quel lavoro investigativo, una conferma: le cosche non mollano, si rinnovano, cambiano strategia, cercano nuovi volti da candidare, nuovi imprenditori da avvicinare, nuovi mercati da inquinare. Ma restano fedeli alla loro natura.

L’arresto a Carignano di uno dei condannati dell’operazione Cassandra, è l’ultimo tassello di questa lunga inchiesta. Il 46enne era sfuggito fino ad oggi alla cattura definitiva. Viveva in Piemonte, lontano dalla Sicilia, forse convinto che quella condanna potesse perdersi nel tempo e nella distanza. Ma le inchieste antimafia, come Cassandra, non dimenticano. E questa volta, la profezia si è avverata.

Cupola 2.0: il ritorno mancato della mafia dei colletti bianchi

È il 4 dicembre 2018. Palermo si sveglia con la notizia che scuote le fondamenta dell’isola e le certezze dell’antimafia: Settimo Mineo, il “gioielliere dei boss”, custode delle vecchie regole e dei patti di sangue della mafia tradizionale, è stato arrestato. Con lui, altre 45 persone finiscono in manette. Il nome dell’operazione è potente: Cupola 2.0. Un richiamo diretto, spietato, al cuore del sistema mafioso. Perché ciò che gli inquirenti scoprono è chiaro e inquietante: Cosa nostra stava ricostruendo la sua Commissione provinciale, l’organo di vertice, la Cupola appunto, che da decenni gestiva i rapporti tra i mandamenti, decideva la vita e la morte, gli affari e le tregue.

Il tentativo era stato messo in atto pochi mesi prima, il 29 maggio 2018, durante un summit segreto nei pressi di Palermo. A partecipare, i capi mandamento dell’area urbana e della provincia. Il progetto: riorganizzare la mafia siciliana dopo gli arresti che, negli anni, avevano decapitato i vertici storici – da Totò Riina a Bernardo Provenzano – e dopo il fallimento di ogni tentativo di successione stabile. Al vertice della nuova Commissione viene eletto Mineo, figura anziana ma rispettata, già reggente del mandamento di Pagliarelli, un uomo che, per rispetto e curriculum criminale, può ambire al trono.

L’operazione viene battezzata Cupola 2.0 perché segna il ritorno di una mafia che si organizza come un sistema verticale, gerarchico, compatto, capace di decidere in maniera collegiale, come ai tempi dei corleonesi. E lo fa in modo moderno: non solo intimidazione, ma anche strategie di penetrazione nei settori economici, politici, imprenditoriali. L’obiettivo è ricostruire il potere mafioso partendo da una nuova alleanza tra le famiglie, con una distribuzione ordinata dei territori e degli affari.

L’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, guidata dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca, si basa su intercettazioni, pedinamenti, osservazioni sul campo, ma soprattutto sul contributo di due collaboratori di giustizia interni alla nuova Cupola: Francesco Colletti e Filippo Bisconti. Sono loro a raccontare i dettagli del summit, a fare i nomi, a spiegare il piano. Ed è grazie alle loro dichiarazioni che la magistratura riesce a collegare decine di episodi estorsivi, traffici illeciti, incontri segreti e spartizioni di zone.

Tra i reati contestati ci sono: associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni aggravate, intestazione fittizia di beni, porto abusivo di armi, danneggiamenti a mezzo incendio. Ma soprattutto, il tentativo di ripristinare la struttura decisionale che aveva governato per decenni la mafia siciliana. Si parla di rituali di affiliazione, di sanzioni contro affiliati “indisciplinati”, di regolamenti interni, persino di un codice comportamentale. Tutto documentato, ascoltato, verbalizzato.

Tra gli arrestati figurano nomi noti e meno noti, esponenti di vecchie famiglie mafiose e nuovi rampolli del crimine. Il processo, celebrato con rito abbreviato per una parte degli imputati, si conclude nel dicembre 2020 con 46 condanne e oltre 430 anni di carcere inflitti. Solo nove assoluzioni. Mineo viene condannato inizialmente a 16 anni, poi a 21 in appello, ed è oggi detenuto al 41-bis. Un altro tentativo della mafia di riorganizzarsi è fallito, ma il segnale resta: Cosa nostra non è morta, si riorganizza, cambia pelle.

L’operazione Cupola 2.0 ha un valore simbolico enorme. Dopo anni di apparente silenzio, dopo l’illusione che la mafia fosse scomparsa dalla cronaca, questa indagine dimostra che la struttura mafiosa resta viva, che il potere criminale cerca continuamente di ricompattarsi, e che – soprattutto – i vuoti di potere vengono immediatamente occupati. L’organizzazione sa aspettare, sa rientrare nel cono d’ombra. Ma quando le condizioni sembrano favorevoli, riappare con la vecchia brutalità e la nuova ambizione.

Il blitz del 4 dicembre 2018 ha disinnescato una bomba pronta a riesplodere. Ma ha anche ricordato a tutti che la lotta alla mafia non può fermarsi. Perché la Cupola può essere smantellata. Ma l’idea stessa di Cupola – quell’arroganza del potere illegale – trova sempre il modo di ricostruirsi. Anche in una versione 2.0.

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