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È morto Raffaele Fiore, ex brigatista protagonista dell’agguato di via Fani e capo della colonna torinese delle Br

Aveva 71 anni. Non si era mai pentito né dissociato dalla lotta armata. Partecipò al sequestro di Aldo Moro e fu condannato all’ergastolo

È morto Raffaele Fiore, ex brigatista protagonista dell’agguato di via Fani e capo della colonna torinese delle Br

È morto Raffaele Fiore, ex brigatista protagonista dell’agguato di via Fani e capo della colonna torinese delle Br

È morto all’età di 71 anni Raffaele Fiore, ex esponente delle Brigate Rosse, figura centrale degli anni più bui del terrorismo italiano. La notizia della scomparsa, avvenuta ieri in Puglia, è stata resa nota dall’avvocato Davide Steccanella, legale di un altro ex brigatista, Lauro Azzolini. Fiore era rientrato nella sua terra natale dopo la morte della moglie, Angela Vai, anche lei militante delle Br, deceduta pochi mesi fa.

Raffaele Fiore

Nato a Bari il 7 maggio 1954, Raffaele Fiore si trasferì da giovane a Milano, dove trovò impiego alla Breda di Sesto San Giovanni dopo aver lavorato come scaricatore al mercato ortofrutticolo. Aderì giovanissimo alla lotta armata e divenne uno dei quadri operativi più attivi e ideologicamente intransigenti delle Brigate Rosse. Noto all'interno dell'organizzazione con il nome di battaglia "Marcello", era descritto da alcuni ex compagni, come Patrizio Peci, come una figura dal carattere autoritario e violento, con modi bruschi e un’indole fanatica.

Nel 1977 fu coinvolto in alcune delle più efferate azioni compiute dalla colonna torinese delle Br, tra cui gli omicidi del vicedirettore de La Stampa, Carlo Casalegno, e dell’avvocato Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino. Proprio quell’anno, insieme ad altri militanti come Angela Vai (che sarebbe diventata sua moglie) e Patrizio Peci, gambizzò l'ingegnere Antonio Munari, dirigente Fiat. La sua figura emerse sempre più come centrale nel panorama brigatista piemontese, tanto che alla fine del 1978 entrò nel Comitato Esecutivo delle Br, il massimo organo politico dell’organizzazione armata.

Il suo nome è però legato in maniera indissolubile al sequestro di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo 1978 e ucciso dopo 55 giorni di prigionia. Quel giorno, in via Mario Fani, Fiore era uno dei quattro brigatisti travestiti da avieri dell’Aeronautica Militare che aprirono il fuoco contro l’auto di scorta e il convoglio che trasportava Moro. Secondo le ricostruzioni processuali e investigative, era armato di mitra, ma l’arma si inceppò, impedendogli di esplodere colpi contro Domenico Ricci, l’autista, e gli agenti di scorta. Fu comunque lui, insieme a Mario Moretti, a trascinare Aldo Moro fuori dalla Fiat 130 per caricarlo sulla Fiat 132 che avrebbe poi fatto perdere le tracce dello statista.

Arrestato a Torino il 19 marzo 1979, all’alba, Fiore fu processato nel primo grande procedimento giudiziario sul caso Moro, il cosiddetto processo 'Moro Uno', conclusosi nel 1983 con la condanna all’ergastolo. In carcere, come altri esponenti della componente "militare" e oltranzista delle Br, non si pentì mai, né accettò di collaborare con la giustizia o di firmare una dissociazione. Una scelta che lo mantenne a lungo in carcere, ma che non lo privò della possibilità di accedere alla libertà condizionale nel 1997, misura confermata definitivamente nel 2007.

Nel corso della sua vita post-detentiva lavorò in una cooperativa e scelse il silenzio pubblico, fatta eccezione per la collaborazione con il giornalista Aldo Grandi, che nel 2007 pubblicò il libro-intervista L’ultimo brigatista, nel quale Fiore offrì la propria visione sugli anni della lotta armata, senza mostrare rimorso per le proprie azioni.

La sua morte chiude un altro capitolo della tragica stagione del terrorismo rosso in Italia, quello di un militante che fu al centro della strategia della tensione e della guerra allo Stato, e che fino alla fine rimase fedele alla propria visione ideologica, senza mai rinnegarla.

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