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Cronaca

Dopo mesi di odio social contro Cristina Seymandi, quattro uomini sono stati identificati e indagati

La procura di Torino ha identificato gli autori di insulti sessisti online: rischiano il processo per cyberbullismo

Dopo mesi di odio social

Dopo mesi di odio social contro Cristina Seymandi, quattro uomini sono stati identificati e indagati

Dopo mesi di indagini complesse e accertamenti tecnici, la Procura di Torino ha finalmente dato un nome e un volto a quattro degli autori di insulti sessisti rivolti all’imprenditrice Cristina Seymandi sui social network. Si tratta di quattro uomini residenti tra Campania e Veneto, ora ufficialmente indagati per diffamazione aggravata a mezzo internet. L’inchiesta, che nasce da una querela dettagliata presentata dalla stessa Seymandi, segna un passo importante nella lotta contro l’odio digitale e il cyberbullismo a sfondo misogino.

Tutto parte da un episodio ormai noto: la diffusione virale di un video privato in cui veniva ripreso il momento della rottura con l’ex compagno, il banchiere torinese Massimo Segre. Da quel giorno, tra clip rilanciate sui siti, commenti velenosi, e battute allusive, Seymandi si è trovata al centro di una tempesta mediatica di rara violenza, con decine di utenti che – nascosti dietro profili anonimi – hanno dato libero sfogo a un linguaggio sessista, degradante e violento. Per mesi, il suo nome è stato accostato non solo a questioni sentimentali, ma anche a insinuazioni denigratorie sulla sua persona e sul suo ruolo professionale.

È proprio da questa valanga d’odio, amplificata dai social, che parte la denuncia dell’imprenditrice, che ha voluto reagire con fermezza. Ma il primo tentativo di ottenere giustizia si era scontrato con una difficoltà non banale: l’anonimato degli aggressori digitali. Nel dicembre scorso, il pubblico ministero Umberto Furlan, inizialmente incaricato del fascicolo, aveva chiesto l’archiviazione dell’indagine, ritenendo impossibile risalire agli autori dei commenti.

Ma Cristina Seymandi non ha accettato il silenzio. Ha presentato opposizione, e il giudice per le indagini preliminari Lucia Minutella ha accolto la richiesta: le indagini sono ripartite. A svolgerle è stato il Reparto Operativo della Polizia Postale, che ha lavorato incrociando dati di traffico, tracciamenti IP e accessi ai profili per identificare – con certezza – gli autori di alcuni dei commenti più gravi.

L’identificazione è ora avvenuta. I quattro uomini individuati sono persone comuni, non personaggi pubblici né volti noti, ma utenti che – come molti altri – avevano pensato di poter insultare e infangare senza conseguenze, protetti da uno schermo. I profili social utilizzati per l’aggressione sono stati ricondotti ai rispettivi dispositivi e account, e i reati contestati sono gravi: diffamazione aggravata, con l’aggravante dell’uso di strumenti telematici, che aumenta la pena ed esclude la semplice archiviazione.

Gli atti sono stati ora trasferiti alle procure competenti per territorio, rispettivamente quelle di Napoli e Vicenza, dove i quattro dovranno rispondere delle accuse. L’ipotesi più concreta è che, terminati gli accertamenti, si vada verso il rinvio a giudizio.

Si apre così una nuova pagina di una vicenda che, da caso di gossip e spettacolarizzazione della vita privata, si è trasformata in un caso giudiziario simbolico, con implicazioni ben più profonde. Cristina Seymandi, infatti, diventa ora – suo malgrado – simbolo di una battaglia civile: quella contro l’impunità degli haters, contro il sessismo da tastiera, e contro quella forma subdola di violenza di genere che si insinua nei commenti, negli insulti, nelle battute allusive che si riversano ogni giorno sotto i post di donne pubbliche e comuni.

La stessa imprenditrice, già in passato bersaglio di giudizi sommari e commenti offensivi anche nei salotti televisivi, ha dichiarato di voler “usare ogni strumento legale disponibile” per reagire: non solo per se stessa, ma perché “nessuna donna debba più sentirsi sola o impotente di fronte a questi attacchi”.

Sul fronte penale, si apre ora una fase delicata. I reati legati alla diffamazione online non sono nuovi, ma raramente portano a identificazioni puntuali. Questo caso dimostra, invece, che gli strumenti per rintracciare i colpevoli esistono, e che – se c’è volontà – anche dietro un profilo anonimo si può trovare una responsabilità giuridica.

Una battaglia che assume valore nazionale, in un Paese dove – secondo l’ultimo report di Vox Diritti – il linguaggio d’odio online colpisce le donne nel 41% dei casi, e dove troppo spesso i commenti sessisti vengono archiviati come goliardia o libertà d’espressione.

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