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Cronaca

Ragazzo preso a pugni da un branco al lago Sirio

Il racconto di Irene Tempia, madre di due ragazzi di 15 e 17 anni aggrediti da un gruppo di otto giovani. “Uno mi ha chiamato per farsi venire a prendere, ma non ha avuto il coraggio di dirmi che era stato picchiato. A casa mi è crollato tra le braccia”

Ragazzo preso a pugni da un branco al lago Sirio

Branco al lago Sirio

C'è chi va al lago per cercare un po’ di sollievo dalla calura estiva. E poi c’è chi, purtroppo, finisce per tornare a casa con i lividi, la paura negli occhi e un peso nel cuore difficile da scrollarsi di dosso. È la storia di Irene Tempia, madre di due ragazzi di 15 e 17 anni, residente a Graglia, nel Biellese. Una madre che ha trovato il coraggio di raccontare l’incubo vissuto dai suoi figli, un pomeriggio di inizio estate che avrebbe dovuto essere solo un momento di svago.

Giovedì scorso i due fratelli erano andati al lago Sirio con due amici. Il padre li aveva accompagnati al mattino. “Tutto bene, spiaggia pubblica piena di gente, sembrava una giornata normale”, racconta Irene. Poi, nel pomeriggio, quella telefonata. Il più piccolo chiama il padre. La voce è sottile, impaurita, ma composta: “Ho perso gli occhiali. Vienimi a prendere”. Solo questo. Nessun’altra parola. Nessun accenno a ciò che era realmente accaduto.

baby gang

Dietro quel silenzio si nascondeva l’inferno.

“Mio figlio è stato preso in mezzo da un branco, otto o dieci ragazzi, mi hanno detto presumibilmente di origine marocchina, forse anche minorenni. Lo hanno accerchiato, colpito con dei pugni in faccia, gli hanno fatto volare via gli occhiali in acqua. Un signore si è messo in mezzo per evitare il peggio”, racconta Irene con la voce che trema. “Ma lui… lui non ha detto niente. Non voleva farci preoccupare. Ha solo parlato degli occhiali. Ma io ho visto il suo viso, ho visto gli occhi pieni di vergogna e dolore. Ed è stato peggio di qualsiasi urlo”.

A casa, il silenzio del figlio ha fatto più rumore di mille parole. Solo insistendo, solo guardandolo negli occhi, i genitori sono riusciti a ricostruire. E quel che è emerso ha lasciato tutti senza fiato.

E non è finita lì.

Il fratello maggiore era rimasto al lago con gli amici. “Avevano ordinato le pizze, volevano aspettare. E verso le sette quel gruppo è tornato. Questa volta non hanno alzato le mani, ma hanno cominciato a minacciare. Parole pesanti, sguardi feroci. Mio figlio è rimasto immobile, ha fatto finta di niente, ma so che dentro tremava”.

Irene non ha perso tempo. “Sono andata a fare denuncia, sia per le percosse che per le minacce. Ho parlato con chi vive lì vicino e mi hanno detto che quel gruppo si presenta quasi ogni giorno, sempre dalle due meno un quarto in avanti. E ogni volta disturbano, provocano, seminano disagio”.

Poi, un’altra frase. Una di quelle che restano. “Le cose stanno peggiorando. A Graglia abbiamo tutti il fucile, e qui i ragazzi rigano dritto, si sa. Ma mi sa che a Ivrea la situazione è fuori controllo. E mi chiedo: il sindaco che cosa sta facendo? Perché mi dicono che tutti sanno, ma nessuno interviene”.

È una frase amara, detta forse per sdrammatizzare, forse per sfogare la rabbia. Ma è anche una richiesta disperata di attenzione, l’urlo di una madre che vuole proteggere i suoi figli e quelli degli altri. Perché sa che quel che è accaduto ai suoi ragazzi potrebbe succedere a chiunque.

Oggi, la denuncia di Irene è nelle mani delle autorità. Ma serve molto di più. Servono risposte. Servono presenze. Servono azioni concrete. Prima che altri figli tornino a casa in silenzio, col volto gonfio di lividi e la voce spezzata dalla paura. Prima che altre madri come Irene debbano guardare negli occhi i propri ragazzi e scoprire, con orrore, che si sono tenuti tutto dentro per non far soffrire chi li ama.

E non è sola. Altre mamme hanno vissuto episodi simili. Alcune hanno deciso di unirsi. È nato un comitato "sicurezza la centro", per chiedere giustizia, sicurezza, rispetto. A guidarlo c’è Piera Paonessa, anche lei madre, anche lei decisa a non stare più zitta.

Perché la paura non può diventare normalità. E il silenzio non può più essere la risposta.

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