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Cronaca

Strage dell’Adriana: 17 membri della Guardia Costiera incriminati per omissione di soccorso

A un anno di distanza, la giustizia greca accusa formalmente 17 uomini della Guardia Costiera: avrebbero potuto salvare centinaia di vite, ma non lo fecero. Ora si cerca la verità

Incriminati 17 membri

Strage dell’Adriana: 17 membri della Guardia Costiera greca incriminati per omissione di soccorso

Un peschereccio fatiscente, carico fino all’inverosimile di migranti partiti dalla Libia, affonda nel buio del Mar Ionio. Oltre 500 persone disperse, 82 corpi recuperati, appena 104 sopravvissuti. È la strage dell’Adriana, un disastro umanitario che scuote l’Europa e che, oggi, torna al centro dell’attenzione giudiziaria e politica. Perché secondo le indagini del Tribunale Navale del Pireo, quella notte si sarebbe potuto intervenire prima. Si sarebbe dovuto.

A finire sotto accusa sono 17 membri della Guardia Costiera greca, inclusi comandanti e operatori della motovedetta intervenuta, ora formalmente incriminati per omissione di soccorso, negligenza grave e condotta pericolosa. Secondo l’inchiesta, l’Adriana era stata avvistata da Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, oltre 15 ore prima del naufragio, in evidente difficoltà. Ma nessuno è intervenuto tempestivamente. Anzi, quando finalmente si è mosso qualcosa, sarebbe stato il tentativo stesso di trainare il peschereccio a provocarne il ribaltamento.

La dinamica raccontata dai sopravvissuti è agghiacciante: l’imbarcazione, lunga 30 metri e stipata con oltre 700 persone, stava imbarcando acqua, era instabile, piegata su un lato. Più volte – dicono – i migranti avevano chiesto aiuto, urlato, sventolato panni bianchi. Ma la risposta non è mai arrivata. Quando la motovedetta greca si è finalmente avvicinata, avrebbe tentato di rimorchiare il peschereccio con una corda, manovra ritenuta estrema e rischiosa per un’imbarcazione in quelle condizioni. Poco dopo, l’Adriana si è capovolta. E con lei centinaia di vite sono sprofondate nel buio.

Naufragio che provocò la strage dell’Adriana

L’inchiesta ha raccolto testimonianze, tracciamenti radar, video, e soprattutto il silenzio radio durato ore. Gli imputati ora dovranno rispondere in tribunale, ma la vicenda solleva una questione più ampia: cosa accade davvero nel cuore del Mediterraneo quando non ci sono testimoni? Quante vite vengono perse nell’indifferenza?

L’Adriana è solo l’ultima di una lunga lista. Ma qui c’è di più: ci sono responsabilità istituzionali, ci sono scelte precise, ci sono ordini mancati o mal dati, che potrebbero aver trasformato un soccorso in un disastro. La guardia costiera greca, già al centro di accuse per respingimenti illegali, è ora chiamata a rispondere anche per ciò che non ha fatto.

La vicenda ha acceso il dibattito anche in sede europea. Organizzazioni umanitarie, avvocati e parlamentari chiedono chiarezza, trasparenza, un’indagine internazionale indipendente. Ma soprattutto chiedono una revisione profonda delle politiche di gestione dei soccorsi in mare, troppo spesso lasciati alla discrezionalità di singoli stati, in un quadro normativo opaco e frammentato. Frontex, che aveva segnalato l’Adriana, è accusata di essersi limitata al monitoraggio, senza coordinare un intervento diretto. Un altro tassello che racconta l’inadeguatezza del sistema di salvataggio europeo.

Nel frattempo, le famiglie delle vittime chiedono giustizia. Alcuni dei superstiti hanno raccontato di aver perso figli, madri, fratelli, annegati accanto a loro senza che nessuno tendesse una mano. La maggior parte dei passeggeri erano siriani, palestinesi, pakistani ed egiziani, in fuga da guerre, miseria, disperazione. Avevano pagato cifre enormi per salire su quel peschereccio, illusi di trovare salvezza in Europa. Invece, hanno trovato il silenzio.

La tragedia dell’Adriana è un atto d’accusa contro l’Europa, contro la gestione securitaria dei confini, contro l’assenza di una missione di soccorso permanente, contro il fatto che, nel 2023, ancora si possa morire a centinaia in mare senza che nessuno risponda. È una ferita aperta, che chiede verità, responsabilità e un cambio di rotta.

Serve un protocollo europeo vincolante, serve coordinamento immediato tra stati, serve soprattutto umanità. Perché salvare una vita in mare non è una scelta politica: è un dovere morale e giuridico. E chi dimentica questo principio, anche indossando una divisa, non può restare impunito.

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