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Cronaca

Coltellate davanti ai figli: ergastolo e isolamento per Abdelkader Ben Alaya

L’uomo, già sottoposto a divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico, ha ucciso l’ex moglie davanti ai figli. Il dispositivo di protezione non ha funzionato

Roua Nabi uccisa il 23 settembre 2024

Roua Nabi uccisa il 23 settembre 2024

Quattro beep rimasti inascoltati. Un braccialetto elettronico scarico. Una donna uccisa davanti ai suoi figli.
Non è solo la cronaca di un femminicidio. È il resoconto di un fallimento, di un sistema che promette protezione ma che, troppo spesso, lascia sole le vittime.
Oggi, la Corte di Assise di Torino ha condannato all’ergastolo Abdelkader Ben Alaya, 48 anni, per l'omicidio brutale della sua ex moglie, Roua Nabi, massacrata a coltellate il 23 settembre 2024 nel loro appartamento di via Cigna, sotto lo sguardo disperato dei figli adolescenti.
Una sentenza pesante, che porta con sé una domanda amara: basta davvero la giustizia a sanare un'assenza che poteva e doveva essere evitata?

Un delitto che, oltre al dramma umano, apre una ferita profonda sul funzionamento dei sistemi di protezione per le vittime di violenza domestica.
Ben Alaya, infatti, era sottoposto a divieto di avvicinamento e monitorato tramite braccialetto elettronico. Un dispositivo che, quella mattina maledetta, non ha funzionato.
Il pm Cesare Parodi ha spiegato in aula: "Il braccialetto era scarico". Proprio come un cellulare senza batteria, lasciando Roua sola, vulnerabile, senza quella barriera tecnologica che avrebbe potuto salvarla.

La ricostruzione ha evidenziato due criticità: il dispositivo avrebbe richiesto una ricarica periodica, compito che spettava sia alla vittima che all'aggressore. In aggiunta, una relazione tecnica di Fastweb, azienda responsabile del dispositivo, ha riferito che il sistema aveva comunque emesso quattro segnali di allarmequattro beeprimasti inascoltati.

Un corto circuito tra tecnologia e responsabilità umane che ha avuto esiti fatali.

Durante il processo, Ben Alaya ha reso dichiarazioni spontanee, tentando di spiegare il suo gesto.
"Io non so usare il coltello", ha detto, sostenendo di non ricordare bene i momenti concitati dell'aggressione. Ha parlato di un rapporto inizialmente felice con Roua, rovinato nel tempo, alimentato da gelosie e sospetti di tradimenti, in particolare dopo aver ricevuto un presunto video compromettente da una conoscente.

Una narrazione che ha cozzato frontalmente con quella della madre di Roua, parte civile nel processo.
La donna ha tracciato un quadro diverso, duro, senza sconti: anni di violenze, lividi, paura.
"Un anno prima della sua morte ho visto un livido blu sulla schiena", ha raccontato tra le lacrime, dipingendo Ben Alaya come un uomo segnato dalla brutalità e dal controllo ossessivo.

Alla fine, nessun dubbio: colpevole.
Il pm Parodi aveva chiesto la pena più severa possibile, sottolineando la ferocia dell’omicidio e il tradimento dei sistemi di protezione. La Corte ha accolto integralmente la richiesta, condannando Ben Alaya all'ergastolo e a quattro mesi di isolamento.

Ma oltre alla sentenza, resta una domanda inquietante: quanto vale, oggi, la protezione offerta a chi denuncia?

Il caso di Roua Nabi scuote Torino e pone interrogativi scomodi: sui limiti delle misure cautelari, sulla fragilità dei sistemi di allerta, sull’attenzione reale – e non solo di facciata – che le istituzioni devono garantire a chi vive sotto minaccia.

Perché ogni beep rimasto inascoltato non è solo un errore. È una condanna che pesa su tutta la società.

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