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Cronaca
27 Febbraio 2025 - 11:12
È una storia che parla di fiducia tradita, di paura soffocata e di una giustizia a rallentatore. Il protagonista - un fotografo di Caselle con una carriera divisa tra un altro lavoro e quello che per lui è molto più che un hobby fatto di servizi fotografici a modelle e scatti di artisti durante concerti e festival - ha patteggiato una condanna a dieci mesi di carcere per molestie sessuali che non sconterà per effetto della sospensione condizionale della pena.
La vittima è una donna di 35 anni, una conoscenza dell’uomo, che nel maggio del 2023 aveva accettato di posare per lui. Un servizio fotografico apparentemente come tanti altri, un’occasione professionale pattuita con un compenso di 100 euro. Ma il set si è trasformato in un incubo.
Quel giorno, la modella si reca nell’abitazione del fotografo, ignara del pericolo che l’attende. Mentre si prepara, lui entra in bagno senza preavviso, costringendola a cacciarlo via. Poi, con una familiarità non richiesta, le dà uno schiaffo sul sedere, le tocca il seno con la scusa di “controllare se fosse rifatta”.
Il disagio della donna cresce, ma non si oppone apertamente. «Volevo solo finire il prima possibile e andarmene senza provocare reazioni imprevedibili», ha raccontato ai magistrati. La paura, spesso, paralizza più di qualsiasi violenza fisica.
Ma l’uomo non si ferma. Chiede alla modella di indossare una lunga camicia da uomo per l’ultimo scatto. Poi, con la naturalezza di chi si sente immune dalle conseguenze, le dice: «Togliti le mutandine, sennò si vedono nelle foto». Lei, intrappolata in un misto di confusione e terrore, obbedisce. È allora che l’uomo si abbassa pantaloni e intimo e si avvicina a lei completamente nudo. Il respiro della donna si blocca, il tempo si ferma. «Ero allibita e scioccata. Temevo per la mia incolumità», ha raccontato.
Con uno sforzo disperato cerca di ridicolizzare la situazione per non provocarlo, per non peggiorare le cose. Quando finalmente il servizio termina, la donna esce di casa. Ma l’incubo non è finito. Poco dopo, il fotografo le invia immagini intime non richieste, come se l’invasione della sua persona non fosse ancora abbastanza.
Dopo giorni di angoscia, la donna trova il coraggio di raccontare tutto alle amiche e poi di denunciare ai carabinieri di Venaria. Inizia così un lungo percorso giudiziario, quasi due anni di attese, interrogatori, paure e sofferenza. «Sto vivendo questa situazione con dolore, anche a causa delle lungaggini della giustizia», ha detto la vittima.
Alla fine, il fotografo ha patteggiato una pena di dieci mesi con sospensione e ha accettato di versare un risarcimento di 2.000 euro. Somma che la donna ha deciso di devolvere a un’associazione che si occupa di violenza sulle donne. Non si è costituita parte civile, forse per il desiderio di chiudere al più presto un capitolo doloroso della sua vita.
L’avvocato: «Il patteggiamento non è ammissione di colpa»
A difendere l’uomo, l’avvocato Marco Latella, che ha voluto precisare: «Il mio assistito non ha mai commesso ciò di cui è stato accusato. Il patteggiamento non è un’ammissione di colpa, ma un modo per chiudere il caso nel più breve tempo possibile, evitando conseguenze sulla sua vita personale e professionale».
Parole che suonano come un’eco lontana per chi ha vissuto sulla propria pelle l’angoscia di quel giorno. Per la vittima, la sentenza è solo un punto finale in una vicenda che le ha lasciato segni più profondi di qualsiasi condanna. Per lui, una macchia che, seppur minimizzata dagli effetti giuridici, difficilmente potrà essere cancellata dalla memoria pubblica.
Resta una riflessione amara: quanto ancora le donne dovranno temere di trovarsi in situazioni del genere? Quanto tempo dovrà passare prima che la fiducia data non si trasformi in una trappola? Domande a cui la giustizia non ha ancora trovato risposte definitive.
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