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Robbie Williams, la fragilità di un’icona pop: "Mia madre non si ricorda di me" (VIDEO)

Il dolore di un figlio diventato genitore dei propri genitori

Robbie Williams

Robbie Williams, la fragilità di un’icona pop: "Mia madre non si ricorda di me"

Durante un recente concerto a Lipsia, Robbie Williams si è fermato. Non per un guasto tecnico, non per stanchezza, ma per condividere qualcosa che va oltre la musica: un dolore intimo, familiare, ineludibile. Di fronte a migliaia di fan, con la voce rotta e gli occhi lucidi, ha raccontato che la madre non lo riconosce più a causa della demenza. E che il padre è affetto da Parkinson, così come la suocera, già duramente provata da lupus e cancro.

È stato un momento di rottura, un’interruzione della finzione scenica che accompagna ogni show. Robbie, noto per la sua ironia tagliente e l’energia disarmante, si è mostrato fragile e profondamente umano. Ha detto chiaramente di sentirsi "non pronto" ad affrontare tutto questo. A 51 anni, si ritrova a vivere un paradosso: essere il genitore dei propri genitori. Una condizione che molti conoscono, ma che raramente viene raccontata pubblicamente da una star del suo calibro.

La malattia della madre, una forma avanzata di demenza, lo ha colpito duramente. “Non sa chi sono, non sa dove si trova”: parole semplici, devastanti. La progressiva perdita di memoria, la confusione, l’impossibilità di comunicare: una dissolvenza lenta che cancella identità e legami. Per chi osserva, il dolore è fatto di impotenza quotidiana. E Williams non si nasconde, ammette la difficoltà di accettare che la donna che lo ha cresciuto, sostenuto, protetto, non riesca più a riconoscerlo come figlio.

Accanto a questo, c’è il padre, un tempo figura carismatica che lo accompagnava anche sul palco. Ora, il Parkinson lo tiene relegato in casa, con il corpo che tradisce i comandi, con la voce che si spegne, con i gesti sempre più lenti. Un altro vuoto che avanza, un’altra assenza presente. E poi la suocera, madre della moglie Ayda Field, che combatte una battaglia su più fronti: lupus, tumore, e anche il Parkinson. Una condizione sanitaria che si fa carico emotivo quotidiano, che logora chi assiste, chi accompagna, chi resta accanto.

Ma quello che colpisce di più nel racconto di Robbie Williams non è solo la gravità delle patologie. È la sua vulnerabilità consapevole, l’ammissione di non essere pronto a questo ruolo rovesciato in cui i figli si trasformano in genitori. E lo fa con lucidità, senza teatralità. Non cerca applausi, ma comprensione. Racconta la sua verità per avvicinarsi al suo pubblico, non per allontanarlo.

Il suo è un gesto raro, in un’epoca in cui la spettacolarizzazione delle emozioni è diventata norma. Qui non c’è strategia, ma un’urgenza personale. Williams ha vissuto sulla pelle disturbi mentali, dipendenze, depressione. Ha parlato in passato di disordini alimentari, attacchi di panico, isolamento. Ma questa volta il dolore non riguarda lui direttamente, bensì le persone che ama. E forse per questo è ancora più devastante.

Quello che si intravede nelle sue parole è una crisi generazionale silenziosa: quella che riguarda i figli della cosiddetta mezza età, spesso schiacciati tra l'accudimento dei figli adolescenti e quello dei genitori anziani e fragili. Una doppia fatica, poco visibile, poco raccontata, ma sempre più diffusa. Williams le dà voce, e in questo diventa testimone di una condizione che non riguarda solo la celebrità, ma milioni di persone comuni.

La sua tournée, intanto, prosegue. Sale sul palco, canta, sorride. Ma chi lo ascolta ora sa che dietro a quella voce potente e a quel corpo in scena, c’è un uomo provato, che ogni giorno affronta telefonate difficili, notizie peggiorate, occhi spenti, memorie svanite. Un uomo che non si vergogna di dire “non ce la faccio”, e proprio per questo riesce a dare forza a chi vive qualcosa di simile.

La sua confessione è un atto di autenticità e coraggio, raro in un mondo che finge di essere sempre forte. E forse, proprio in questo, Robbie Williams continua a fare quello che ha sempre saputo fare meglio: essere vero. Anche quando fa male. Anche quando la canzone finisce e resta solo il silenzio di una madre che non ti riconosce più.

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