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19 Giugno 2022 - 17:57
Renzo Sarteur
“Poi c’era anche lui, nome di battaglia partigiano “Romeo”, che aveva lavorato nel dopoguerra in Cecoslovacchia. Il rivoluzionario che incantava i giovani. Lo si incontrava di notte tra via Palestro e il Municipio di Ivrea intabarrato in un largo mantello nero, il colbacco in testa, a cercar di convincere tutti, con argomenti inoppugnabili, che il capitalismo era ormai finito e la rivoluzione terzomondista era prossima, ed i ragazzi ne erano affascinati…”. Franco Di GiorgiNel comunismo ha riconosciuto sé stesso, il bisogno di lottare contro le ingiustizie, di garantire i diritti per tutti. Comunismo come “ribellione”, come “grido di coscienza”, come voglia di “libertà”. Comunismo come un “un modo di vedere il mondo non solo dei comunisti perchè in fondo, Cristo diceva le stesse cose”. E queste son parole sue. Probabile reazione al bigottismo maturata nel collegio in cui era stato costretto a vivere la sua infanzia. Lo accompagnò lì sua madre, orfana di guerra, quando aveva 8 anni. La rivide un paio di volte, forse tre o quattro, nei successivi cinque anni. “Gli altri bambini mi prendevano in giro perché ero quello senza papà”, ricorderà più avanti. Renzo Sarteur, non partecipò alla lotta armata (aveva poco più di 13 anni e non glielo permisero), ma la lotta per la liberazione la vide da vicino, nell’estate del ’44, quando lasciò il collegio e raggiunse sua madre, il suo compagno e suo zio in un passo alpino della Val d’Ayas, in Valle d’Aosta, ai piedi del Monte Rosa, a oltre 2 mila metri. Lo zio era scappato da una caserma di Ivrea, come tanti altri militari. Insieme a loro quattro ex prigionieri dei tedeschi, un americano, un australiano, un neozelandese e un inglese, che erano riusciti a fuggire. Si trattava di un nucleo autonomo collegato alla Divisione Garibaldi. “La mia mansione - raccontò ad alcuni studenti - era di fare quello che di volta in volta necessitava. Spesso mi capitava di dover andare a recuperare farina, riso e sale scambiandoli con il burro che portavamo dalla montagna. Operazioni vere e proprie in quel nucleo non ne feci, se non rifornire i soldati di munizioni, oppure quella volta in cui recuperai un sacco di munizioni e mine che era caduto dalla teleferica...”. Subito dopo la guerra, a 14 anni, l’impiego in Olivetti presso il centro di formazione tecnica. Pur odiando l’automazione, Sarteur ha sempre riconosciuto nell’azienda di Adriano un mondo migliore per i lavoratori. Perchè si investiva in cultura, nell’istruzione e nelle biblioteche. Questo non gli impedì, da comunista, di combattere il “Movimento Comunità”. “Avevamo le nostre ragioni - ricordò in una intervista - ma forse avremmo potuto aiutare quel movimento a evolvere e trasformarsi, a farlo diventare uno strumento per una società socialista...”. Tra i tanti ricordi, uno in particolare, quella lettera che gli scrisse Palmiro Togliatti e che lui conservò con tanto orgoglio. “Ciao compagno Renzo - scrive Beiletti - anche tu ci lasci indicandoci il sentiero dei giusti, della responsabilità, dell’impegno costante. Cercheremo di seguire le tue orme..”. I funerali sono stati celebrati sabato e il corpo è poi stato portato a Mappano senza alcuna cerimonia, per un saluto ristretto ai soli parenti. Alla moglie Anna, alla figlia Giuliana, al figlio e ai familiari le più sentite condoglianze da parte dell’Anpi e di questa redazione.
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