È stato definito «il secolo dei nonni», a sottolineare la crescente importanza assunta da questi ultimi, dopo il giro del millennio, tanto in ambito sociale ed economico come nella sfera dei costumi e dei valori, soprattutto all’interno della famiglia. Tempestivamente, nel 2001, in Francia uscì persino un libro collettaneo il cui titolo ribadisce il concetto: «Le siècle des grands-parents, une génération phare, ici et ailleurs». Il volume apparve pure in Italia, quattro anni più tardi, con un diverso titolo: «Il secolo dei nonni, la rivalutazione di un ruolo» (edizioni Armando, Roma). Lo curarono due sociologhe, Claudine Attias-Donfut e Martine Segalen, entrambe esperte di rapporti intergenerazionali. Semplicissima è la tesi di fondo del libro. Sino a epoche niente affatto remote si tendeva a sottovalutare le potenzialità degli anziani: la vecchiaia non era che la fase finale della vita. Poi le cose presero a mutare drasticamente. D’altronde, in una società dove i rapporti tra le generazioni diventano sempre più forti e non si fondano più sulla sola affettività, è inevitabile che la condizione dell’anziano venga intesa in maniera nuova. I nonni, in particolare, aiutando i figli, badando ai nipoti e occupandosi di mille attività, hanno finito per assumere un ruolo fondamentale nella famiglia e, conseguentemente, nella società. La metamorfosi è altresì attribuibile alla maggiore durata della vita, ai problemi lavorativi ed economici delle giovani coppie e alla composizione delle famiglie moderne (monogenitoriali, adottive, multietniche, ecc.). Purtroppo, all’inizio del terzo millennio, si erano fatti i conti senza la pandemia di Covid-19. Gli anziani si sono rivelati vulnerabilissimi. Chiusi in casa oppure liberi di uscire rischiando il contagio, lontani dagli affetti di figli e nipoti, con scarse possibilità d’incontrare gli amici, subiscono più di altri i contraccolpi dell’emergenza sanitaria. In estese frange dell’opinione pubblica sembra nel frattempo diffondersi la fantasiosa opinione che gli anziani costituiscono soltanto un peso per la società. Dato che l’Italia non può permettersi un isolamento totale, perché non obbligare gli ultrasettantenni – che consumano e non producono – a rimanere in casa? Perché non introdurre una sorta di confinamento selettivo, allo scopo di evitare troppi sacrifici ai giovani che hanno il sacrosanto diritto di spassarsela? Agli anziani, in buona sostanza, toccherebbe la parte del capro espiatorio di un nuovo ed egoistico lockdown generazionale. «Sexagenarii de ponte» ossia «i sessantenni giù dal ponte», suggerisce un motto latino. Ma sembra che gli antichi romani, i quali erano tutt’altro che selvaggi, non praticassero forme così brutali di rottamazione, limitandosi a scaraventare dal Ponte Sublicio (quello difeso dal leggendario Orazio Coclite nel sesto secolo prima di Cristo) ventisette fantocci di giunco (definiti Argei), con le mani e i piedi legati. «Tempora mutantur et nos mutamur in illis» (i tempi cambiano, anche noi cambiamo con essi), asserivano i romani. Quale differenza rispetto al mondo rurale del passato dove i vecchi rivestivano un ruolo primario! La donna anziana, in particolare, esercitava una grande influenza all’interno della famiglia. Impossibile dimenticare la figura dell’avola concreta ed energica, temprata dalle fatiche dei campi, che Nino Costa (1886-1945) delinea in «Mare granda» con affetto e tenerezza non disgiunti da un briciolo di delicata ironia: «Mare granda a l’ha sla schin-a / pì dë stanta carlevé, / ma le rëdne dla cassin-a / l’ha pa ancor lassaje andé: / l’é ‘ncor chila ch’a comanda / Mare granda» (la nonna ha sulla schiena più di settanta carnevali, ma le redini della cascina non ha ancora mollato: è ancora lei che comanda, la nonna). I tempi cambiano…
Silvio Bertotto
Contadina al lavoro nella campagna di Settimo Torinese
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