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SETTIMO. Al mercato in tempo di contagio

Sin dallo scorso inverno, i venditori ambulanti hanno chiesto che le norme contro il contagio per i mercati e i commerci nelle aree pubbliche fossero il più possibile semplici, chiare e precise. Purtroppo, fra divieti, obblighi, istruzioni, note esplicative, consigli e altro ancora, è accaduto giustappunto il contrario. Forse non ha torto chi pensa che l’arruffona burocrazia borbonica non avrebbe saputo fare di peggio. Gli ambulanti – perché stupirsi? – sono così scesi in strada un po’ dovunque, denunciando le incongruenze dei decreti anti-Covid.

Viene da domandarsi come ci si regolasse un tempo ossia come agissero, in circostanze analoghe, le pubbliche autorità. Quali principi ispiravano i provvedimenti assunti? Illuminanti sono le norme emanate poco meno di due secoli or sono, quando l’Italia intera paventava un’epidemia di colera. All’epoca, com’è noto, la penisola non era unificata. Dal 1831, sul trono, a Torino, sedeva il giovane Carlo Alberto che poteva considerarsi un vero esperto in materia di contraddizioni e irresolutezze. Non a caso, Domenico Carbone, un avvocato del Tortonese, lo chiamerà «Re tentenna», mentre Giosue Carducci, più elegantemente, lo definirà «Italo Amleto». Ciò non toglie che le disposizioni promulgate quello stesso anno per fronteggiare la temuta epidemia risultino di una straordinaria coerenza e modernità.

Era ben chiaro, allora come oggi, che i traffici commerciali possono favorire la diffusione del morbo. Ma era altrettanto chiaro, allora, che non si potevano vietare. «Nello stabilire i luoghi di mercato – fu puntualizzato nel 1831 – si trova una vera contraddizione. I contumaci affamati accorrono per provvedersi di viveri; coloro che vengono dal territorio libero accorrono anche essi per la speranza del guadagno. Bisogna aver folla di accorrenti perché siavi l’abbondanza: e bisognerebbe allontanarla per impedire la confusione e il disordine che darebbero luogo a contaminazione». Contumaci si qualificavano, all’epoca, coloro che erano sottoposti a misure di segregazione o quarantena.

Ne conseguiva che i mercati dovessero tenersi tutti i giorni per evitare i pigia pigia («siavi maggior ordine con minori inconvenienti»). Però ogni mercato – subito si precisò – «non incomincierà che di gran giorno e finirà due ore innanzi del tramontar del sole, acciò ciascuno si ritiri alla sua casa prima della notte e si abbia il tempo di rimettere a pratica il luogo del mercato, di purificarlo, mondarlo, ecc., di ristorare le palizzate, le barriere, e di rifare i fossi, ecc.».

A quali barriere si riferivano le autorità sabaude? Per limitare il contagio era stato disposto che palizzate e altri ostacoli delimitassero i mercati: l’area interna doveva risultare abbastanza ampia affinché i venditori potessero sistemarsi lungo una sola linea. Un piccolo steccato oppure un fosso avrebbe diviso commercianti e acquirenti. «Lo spazio di mezzo – si puntualizzò – rimane libero e vi si pongono le guardie di sanità incaricate, quando il mercato è conchiuso, di far seguire la rimissione [cioè lo sgombero] senza comunicazione di uomo a uomo […] e di far lavare il denaro nell’aceto». A scopo cautelare, le guardie erano tenute a indossare «un abito ampio di tela incerata».

Fra le disposizioni del 1831 figura il divieto di condurre bambini, cani e gatti al mercato, di percorrere strade diverse da quelle suggerite dalle autorità, di «lasciar vagare i […] bestiami fuori del cammino», di recare merci provenienti da «territorio sospetto» senza disinfettarle nei «luoghi di spurgo» e così via. «Essendo bene osservate queste precauzioni, non vi sarà quasi alcuna paura di contaminazione», argomentavano le autorità sanitarie.

Chi ha detto che i nostri antenati erano più sprovveduti di noi? 

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