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01 Dicembre 2020 - 12:30
A differenza di coloro che negano la pandemia di Covid-19, sostenendo che si tratta di una grande messinscena organizzata da non si sa chi, il manzoniano don Ferrante è un mostro di erudizione, benché la sua vasta cultura puzzi di stantio. Don Lisander lo presenta nel ventisettesimo capitolo del romanzo «I promessi sposi»: «Al primo parlar che si fece di peste, […] fu uno de’ più risoluti a negarla, e […] sostenne costantemente, fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione».
Il critico letterario Eugenio Donadoni (1870-1924) ha tratteggiato un ritratto vivissimo di don Ferrante: «La comicità di questo padrone di tutto lo scibile sta principalmente […] nella grande serietà con cui parla di corbellerie, con cui dimostra delle corbellerie». Insomma, avendo smarrito tanto il buon senso quanto il senso comune, don Ferrante è un po’ l’archetipo dei complottisti.
In realtà, scandagliando la storia delle epidemie, è impossibile non accorgersi che negazione dell’evidenza e fake news costituiscono una sorta di leitmotiv. Più degli storici, a cimentarsi col fenomeno sono stati i romanzieri. Consideriamo due esempi di valore letterario assai differente, l’uno di casa nostra, l’altro transalpino.
Nato nel 1846 a Borgolavezzaro, non lontano da Novara, e deceduto nel 1928 a Torino, Luigi Gramegna è una specie di Alexandre Dumas del Piemonte sabaudo: scrisse ben diciotto romanzi di cappa e spada, una vera e propria saga, i cui protagonisti sono umili personaggi del popolo e blasonati esponenti di Casa Savoia, dal quindicesimo al diciannovesimo secolo. Amatissimo dal pubblico, piaceva a Luigi Einaudi e Umberto Eco. «Il barbiere di Sua Altezza» uscì nel 1926 ed è ambientato a Torino durante la pestilenza del 1630. A un certo punto, riferendosi al volgo irresponsabile, il protagonista, mastro Tognino ossia Giovanni Antonio Torsello, esclama: «Ma chi può convincerli del pericolo? Ti rispondono: – Eh, la peste la inventate voi, signori medici e barbieri, per pelare la povera gente credulona». In un altro passo del romanzo, Gramegna fa dire al dottor Cesare Mocca che l’epidemia siciliana del 1576 «non poteva essere peste perché gli astrologi non ne avevano rintracciato alcun segno nella disposizione dei pianeti». Ma è subito rimbeccato da don Cisco, il protomedico Giovanni Francesco Fiochetto, il cui nome non è completamente sconosciuto perché nella strada torinese a lui dedicata si trova un’autostazione del Gtt.
Tra i libri più letti durante il lockdown della scorsa primavera vi è «La peste» del francese Albert Camus (premio Nobel per la letteratura nel 1957) del quale quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario della morte, provocata, secondo i complottisti (toh, ancora loro!), da agenti segreti sovietici. Il romanzo uscì nel 1947. L’epidemia che colpisce la città algerina di Orano in un tempo non precisato, ma negli anni Quaranta del ventesimo secolo, rappresenta il male in tutti i suoi aspetti, non ultimi la guerra e il nazismo. Molti si rifiutano di prendere atto della realtà. Osserva Camus: «I flagelli […] sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa».
Per i complottisti, l’attuale pandemia non esiste: i poteri occulti agiscono perché dilaghi la paura e s’imponga una nuova forma di dispotismo che essi definiscono «dittatura sanitaria». La sua apoteosi sarà la vaccinazione di massa che falcidierà – in senso non metaforico – l’umanità. Ha scritto recentemente un altro scrittore, il veneto Ferdinando Camon: «Negare e rifiutare è comodo. I negazionisti negano per non entrare in crisi. Negheranno sempre. Con la negazione si proteggono dalla verità»
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