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22 Luglio 2020 - 10:58
Ci fu un tempo, prima che le moderne tecnologie rivoluzionassero modi e costumi di vita, in cui al caldo umido e afoso di estati come quelle degli ultimi anni c’erano pochi rimedi. Si ricorreva allora ai cosiddetti «giassaté» o «portagiassa», gli ambulanti che vendevano il ghiaccio a porta a porta, facendo accorrere le massaie in strada col loro inconfondibile richiamo: «Giassa! Giassa!». Si trattava di un mestiere umile, ma utilissimo quando non si conoscevano altri metodi per produrre il ghiaccio se non quello naturale. Molti «portagiassa» che operavano in Torino e dintorni provenivano dalla zona di Val della Torre.
Durante l’inverno i «giassaté» allagavano alcuni prati, delimitati da speciali arginelli, e attendevano che la natura facesse il proprio corso. Il ghiaccio così formatosi veniva diviso in lastre a colpi di accetta per essere conservato in appositi locali seminterrati, le cosiddette «giassere» o ghiacciaie, dalle pareti molto spesse, protette da uno strato di terriccio erboso, e coperte da una sorta di cupolotto. Un’intercapedine con doppia porta serviva a limitare il fenomeno della conduzione termica, mentre un pozzetto al centro del pavimento raccoglieva l’acqua che inevitabilmente si formava.
A Settimo Torinese i prati della «giassera» si trovavano alla periferia del paese, nella zona fra le attuali vie Giuseppe Verdi e Michelangelo Buonarroti. Il regolamento d’igiene del 1909 stabiliva che il ghiaccio per uso alimentare fosse prodotto con accorgimenti tali da impedire ogni contaminazione della materia prima.
Recita l’articolo 68: «Il trasporto del ghiaccio dai bacini alle ghiacciaie dovrà essere fatto su carri stati prima accuratamente puliti e lavati a grand’acqua con ruvide spazzole». «In caso di sospetto sulla purezza dell’acqua da adoperarsi o nel dubbio che sia avvenuto inquinamento della medesima durante la formazione del ghiaccio, il sindaco […] – si precisava – potrà, a seconda dei casi, ordinare l’analisi dell’acqua o del ghiaccio, la distruzione del medesimo, i lavori di epurazione del bacino a totale spese del proprietario della ghiacciaia».
Non esistendo né i frigoriferi domestici né quelli industriali, il ghiaccio era considerato un prodotto prezioso. In Settimo, durante la seconda metà del secolo scorso, vigeva ancora una particolare consuetudine. Il locatario del macello comunale era obbligato a tenere la propria ghiacciaia «interamente riempita di ghiaccio di buona qualità» e a «somministrarlo gratuitamente ai poveri nelle contingenze di «malattia constatata dal medico». Così fu ribadito nel luglio 1880 dalla giunta del sindaco Giuseppe Demichelis. In caso di malattia il macellaio doveva pure fornire il ghiaccio, «mediante adeguato compenso, ai richiedenti non poveri», fra le ore quattro del mattino e le nove di sera.
In tempi meno lontani si cominciò a fabbricare artificialmente il ghiaccio in uno stabile di via Carlo Alberto (ora via Giacomo Matteotti), per iniziativa della famiglia Masoero. I grossi pani venivano venduti interi, per lo più ai bottegai, oppure tagliati a metà o in quarti, alle famiglie che disponevano di una ghiacciaia domestica. Mobiletto antesignano dei moderni frigoriferi, questa era internamente rivestita di lamiera zincata e divisa in due scomparti: quello inferiore conteneva la carne e gli altri cibi deperibili, in quello superiore si riponeva il ghiaccio. L’acqua prodotta per lenta fusione veniva raccolta in un apposito cassetto che la massaia svuotava periodicamente al fine di evitare che la cucina si allagasse.
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