È una storia drammatica, ormai avvolta nelle nebbie del tempo. Risale a un periodo fra i più cupi della seconda guerra mondiale. Nell’autunno del 1942, dopo le incursioni aeree a tappeto su Torino, gli abitanti cominciarono a fuggire in massa dalla città, dove la casa non era più percepita come simbolo di sicurezza, ma come luogo di pericolo. Le stesse autorità non risparmiarono gli appelli affinché il maggior numero di persone si trasferisse in provincia e altrove. «Chi può deve sfollare», titolò «La Stampa» del 25 novembre 1942. Coloro che non potevano assentarsi dal lavoro in città scelsero paesi abbastanza prossimi a Torino (Volpiano, Brandizzo, Gassino, ecc.) e facilmente raggiungibili coi mezzi pubblici o la bicicletta. Il 1° luglio 1943 poco meno di metà dei torinesi, ossia 338 mila su 697 mila, figurava risiedere altrove. Ma il picco massimo dello sfollamento – 465 mila persone, considerando anche il fenomeno del pendolarismo, alimentato da coloro che trascorrevano soltanto la notte fuori città – si raggiunse nell’agosto successivo, dopo il sanguinoso raid aereo della notte fra il 12 e il 13 luglio (quasi ottocento morti e oltre novecento feriti). Fu così che Settimo Torinese e il territorio circostante, ritenuti a rischio ma ben collegati al capoluogo dalla tranvia elettrica del Regio Parco e dalla linea ferroviaria, si riempirono di sfollati. Il 26 febbraio 1943 il podestà Aldo Barberis informò la federazione provinciale dell’Onmi, l’Opera nazionale maternità e infanzia, che le famiglie rifugiatesi nel territorio erano 554, ottantatré delle quali versavano «in condizioni di bisogno». «Due gestanti, una nutrice e dieci bambini al di sotto dei sei anni – aggiunse – abbisognano di assistenza». Fra il novembre 1942 e il maggio 1943 furono censiti 2.425 sfollati su circa diecimila residenti stabili. Con un fonogramma urgente, il 14 aprile 1944, Barberis segnalerà alla Prefettura che Settimo non poteva accogliere altre famiglie («case […] occupate sino inverosimile»). Le persone meglio fornite di denaro non ebbero difficoltà a trovare alloggio nelle poche abitazioni sfitte del paese; le altre si adattarono a vivere in magazzini, sottotetti, scantinati e locali di recupero, talvolta in coabitazione. Non pochi furono gli abusi commessi da coloro che, proprietari o inquilini, disponevano di locali liberi da concedere in affitto o in subaffitto.«Questa è l’ora della carità, della carità fatta non solo di comprensione e di compatimento, ma di soccorso fattivo e generoso», esortò il bollettino parrocchiale del novembre 1943. Caldi appelli furono rivolti dai sacerdoti di Settimo affinché non si abbandonassero gli sfollati al loro crudele destino. Nonostante tutto, a Settimo, il rapporto residenti-sfollati risultò sempre assai inferiore rispetto ad altri centri del circondario (Volpiano, Gassino, San Benigno, Montanaro, Leinì, San Mauro, Brandizzo e così via), ritenuti meno soggetti al pericolo dei bombardamenti in quanto privi d’industrie o più distanti dal capoluogo subalpino. Ogni sera, dal capolinea torinese di via GianfrancescoFiocchetto, partivano tram carichi oltre ogni immaginazione, con passeggeri aggrappati ai mancorrenti e in precario equilibrio sui predellini delle vetture (le ultime due corse si effettuavano alle ore 19,15 e alle 19,40). Il mattino seguente le stesse scene si ripetevano nella direzione opposta. Per l’intera durata della guerra, il numero degli sfollati si mantenne decisamente alto: nel settembre 1944 erano 2.488, di cui millecinquecento donne (il sessanta per cento del totale), mentre un mese dopo la Liberazione se ne conteranno ancora 1.921.
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