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23 Luglio 2019 - 17:46
È l’estate del 1969, l’estate della guerra in Vietnam e delle prime gigantesche manifestazioni pacifiste; l’estate del Milan che a Madrid vince la seconda coppa dei campioni della sua storia, contro l’Ajax di un giovanissimo Cruijff di cui si dice già un gran bene; l’estate del mega concerto di Woodstock. Chivasso, per non andare tanto lontano, è amministrata dal dottor Gamba, impegnato a gestire i profondi cambiamenti sociali di un paesone che da qualche anno si è trovato lo stabilimento Lancia in casa ed un sacco di immigrati da integrare. Io, all’epoca, ero un bambino di appena cinque anni e di tutti questi grandi avvenimenti, sinceramente, non ricordo nulla. Il mio mondo era il cortile di casa, dove giocavo a pallone o giravo con la bici. Al massimo conoscevo qualche negozio del quartiere, dove andavo a comprare il latte ed il pane con la nonna, o l’angolo davanti al portone di casa dove, con mio fratello, andavo ad aspettare il gelataio che arrivava con il carretto e la trombetta. All’asilo non ci andavo più perché non mi piaceva e la scuola, che come una terribile Idra dalle innumerevoli teste mi avrebbe poi fagocitato per oltre cinquant’anni, a quel tempo non era ancora un mio problema. Di quel periodo felice, come dicevo, non ho più memoria, se non qualche ricordo legato all’impresa dell’Apollo 11: la conquista della luna. Se ne parlava parecchio in casa, in quei giorni precedenti il 20 luglio. Mio padre ascoltava il telegiornale con attenzione, leggeva il giornale, poi, a tavola, ci raccontava le ultime notizie sulla missione, meravigliando mia mamma, che lo fissava incredula, e mio fratello che voleva saperne sempre di più. Mia nonna, invece, forse troppo provata dalla vita per potersi ancora sorprendere, scuoteva scettica il capo. Io ero meravigliato. L’idea che in televisione si potesse vedere da vicino la luna mi eccitava e mi sembrava impossibile, tanto che continuavo a chiedere a tutti se la luna che avremmo visto in televisione era la stessa che si vedeva in cielo. Vivevo nell’attesa di un sogno, con quella gioia inquieta che solo i bambini possono provare. Naturalmente non vidi l’allunaggio in diretta, troppo tardi le quattro di notte, ma ricordo benissimo la sorpresa che provai il giorno successivo, quando per la prima volta vidi Armstrong posare piede sulla luna, proprio quella che vedevo ogni sera in cielo, quella che magicamente cambiava forma da falce a palla, e viceversa, secondo leggi per me assolutamente oscure. Da grande avrei poi scoperto della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, della loro frenetica corsa alla conquista dello spazio, della possibilità, addirittura, che lo sbarco sulla luna sia stato solo una gigantesca messinscena. Francamente non mi importa. Per me, bambino di fine anni sessanta, quelle immagini dei due astronauti che saltellano sulla luna, immagini che per anni ho desiderato invano di poter rivedere, sono la testimonianza concreta di un sogno. Quello di poter vedere da vicino la luna, quella che adesso so perché cambia forma, ma che non riesco ancora a capacitarmi come e perché condizioni chi imbottiglia il vino, o chi mette via il cibo a conservare, o le donne che aspettano un bimbo, o le maree. Si, proprio quella luna lì, la stessa che guardavo dal terrazzo di casa mia nel luglio del 1969 e a cui ogni tanto rivolgo ancora oggi uno sguardo affascinato. Tutto il resto è silenzio.
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