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SETTIMO. Primo Levi e i gabbiani di Settimo

SETTIMO. Primo Levi e i gabbiani di Settimo

Compie quarant’anni la poesia «I gabbiani di Settimo». Correva l’anno 1979 quando la pubblicò il quotidiano «La Stampa». L’autore, Primo Levi, aveva da poco ricevuto il Premio Strega col romanzo di ambiente operaio «La chiave a stella». Da tempo Levi non lavorava più a Settimo Torinese, dove era stato direttore della Siva, ma conosceva bene i dintorni della città. Uomo discreto e schivo, aveva sempre fatto il possibile per passare inosservato.

La poesia fu accolta con freddezza. Subito ripresa dal periodico «Il Cittadino Settimese» che allora usciva a scadenza bimestrale, non mancò di sollevare più di una polemica. Alcuni la giudicarono aderente alla realtà, altri la ritennero inutilmente aspra. Davvero – ci s’interrogò – le nostre discariche costituiscono un richiamo irresistibile per i gabbiani dell’Adriatico che hanno dimenticato «la risacca e il salino, le cacce astute e pazienti, i granchi ghiotti»? Perché i «signori del cielo» si sono ridotti a risalire il Po, «d’ansa in ansa più pingui», per venire a frugare nei nostri rifiuti? Come è potuto accadere tutto questo? Ma qualcuno preferì rimuovere la questione pensando che Levi ce l’avesse con gli imprenditori di una «città operosa e lavoratrice», come si sentì in dovere di precisare «Il Cittadino».

Numerosi e scottanti erano i problemi di quegli anni. Fra recessione economica e tensioni sociali, spinte disgreganti e carenza di servizi pubblici, lavoro nero e conflittualità operaia, Settimo viveva un periodo difficile. Risvolti drammatici presentava la questione ambientale a cui si riferisce direttamente la poesia di Primo Levi. «Entro tre anni (forse) il Po pulito a Settimo», titolava un quotidiano. Ma nessuno s’illudeva: era da troppo tempo che le promosse venivano sistematicamente disattese.

La realtà non lasciava spazio a facili ottimismi. «Paralizzato dal traffico, avvelenato dallo smog, frastornato dal rumore e soffocato dal cemento – scriveva un cronista – il vecchio centro è oggi irriconoscibile, inabitabile. [...] Eppure qui vivono migliaia di persone senza un filo di verde, senza uno spazio libero, senza un vero servizio: come alternativa residenziale c’è solo la periferia, a sua volta anonima e interminabile, assediata e schiacciata dalle fabbriche».

Espandendosi, la città continuava a ingoiare prati e campi; le rogge erano ridotte a fogne; i capannoni industriali assediavano le cascine superstiti che, per secoli, avevano costituito i cardini dell’organizzazione rurale nel territorio. Troppo netta appariva la frattura dei tradizionali rapporti fra l’uomo e l’ambiente circostante.

La poesia «I gabbiani di Settimo» bene si colloca nel clima di allora. Quelli di Primo Levi sono versi di accusa, resi più efficaci dal tono sobrio e riflessivo che era congeniale allo scrittore torinese. Sono la denuncia del degrado delle periferie urbane, di una società che, dimentica della sua storia, sa creare solo «ignobili discariche». Suonano a biasimo dell’insipienza umana che non si vergogna di sconvolgere la natura e i complessi meccanismi che la regolano.

Persino i gabbiani, veleggiando «tra grumi di catrame e lembi di polietilene» (quanta amarezza constatando che «i nuovi nati» sono «più risoluti dei vecchi»!) hanno rinunciato a essere i nobili «signori del cielo». Anche loro, come gli uomini, sono «immemori del passato», unicamente attratti dall’abbondanza. E ora non possono fare altro che planare inquieti.

I gabbiani di Settimo

Di meandro in meandro, anno per anno

I signori del cielo hanno risalito il fiume

Lungo le sponde, su dalle foci impetuose

Hanno dimenticato la risacca e il salino

Le cacce astute e pazienti, i granchi ghiotti

Su per Crespino, Polesella, Ostiglia

I nuovi nati più risoluti dei vecchi

Oltre Luzzara, oltre Viadana spenta

Ingolositi dalle nostre ignobili

Discariche, d’ansa in ansa più pingui.

Hanno esplorato le nebbie di Caorso

I rami pigri fra Cremona e Piacenza

Retti dal fiato tiepido dell’autostrada

Stridendo mesti nel loro breve saluto

Hanno sostato alla bocca del Ticino

Tessuto nidi sotto il ponte di Valenza

Tra grumi di catrame e lembi di polietilene

Han veleggiato a monte oltre Casale e Chivasso

Fuggendo il mare attratti dalla nostra abbondanza

Ora planano inquieti su Settimo Torinese

Immemori del passato frugano i nostri rifiuti.

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