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SETTIMO. Quando Settimo immaginava la rivoluzione

SETTIMO. Quando Settimo immaginava la rivoluzione

Cento anni fa, nel 1919, a pochi mesi dalla fine del primo conflitto mondiale, l’Italia era in subbuglio. Un po’ dovunque divampavano le proteste operaie. I gravi effetti del carovita e della svalutazione monetaria, uniti al disagio e all’inquietudine febbrile che pervadevano le masse popolari, erano all’origine di continui scioperi e disordini. La ripresa delle agitazioni dopo la fine della guerra si traduceva – come scrisse Pietro Nenni, il leader socialista – in un’azione «tumultuosa, anarcoide, priva di direzione, di vedute d’insieme, di chiari e precisi obiettivi». E ancora: «Ogni città fece per proprio conto. Ogni villaggio, ogni cittadina ebbe il suo Marat o il suo Lenin, di formato ridottissimo».

La paura della borghesia per i possibili sbocchi delle agitazioni di piazza fu grande anche a Settimo Torinese. Dietro gli scioperi e i tumulti, molti credevano di scorgere l’ombra della rivoluzione e del bolscevismo. Le autorità s’illudevano di prevenire i disordini vietando cortei e comizi. Non venne permessa, ad esempio, la commemorazione di Rosa Luxemburg – assassinata a Berlino nel gennaio 1919  – che i giovani socialisti avrebbero voluto tenere il 13 giugno.

Domenica 20 e lunedì 21 luglio furono giorni di sciopero generale per la smobilitazione completa dell’esercito, ma anche per esprimere solidarietà alla Russia dei Soviet e alla Repubblica ungherese dei Consigli. Temendo gli atti di vandalismo che avevano caratterizzato analoghe manifestazione in numerose città italiane, i commercianti settimesi si rivolsero al sindaco, il liberale Angelo Chiarle, affinché li autorizzasse a non aprire le botteghe. Ma l’amministrazione comunale era titubante: i paventati disordini avrebbero potuto nascere proprio dalla chiusura dei negozi per due giorni di seguito.

Il sindaco sollecitò istruzioni presso la questura, poi si rivolse ai militari affinché provvedessero al servizio di sorveglianza degli edifici pubblici. Il 17 luglio giunse l’assicurazione che un reparto di truppa si sarebbe trasferito nei locali scolastici, attigui al municipio, per proteggere la sede del Comune e l’ufficio postale.

L’evoluzione di quegli eventi non è attualmente nota. Sul piano nazionale, nonostante le paure della vigilia, lo sciopero non assunse il temuto carattere rivoluzionario. La compattezza delle masse nell’astensione dal lavoro fu tutt’altro che assoluta: funzionarono le poste, i telefoni, la luce elettrica e i treni. Il quotidiano «Avanti!» ammise che, se «altri fattori» non fossero intervenuti a «cambiare la situazione del nostro Paese», era impossibile «la conquista del potere con lo sciopero generale insurrezionale».

Ciò nonostante il continuo stato di agitazione delle masse faceva ritenere prossima la rivoluzione proletaria. Il convincimento era radicato non solo in alcuni ambienti operai, ma in settori ben più ampi della società italiana, i quali paventavano fortemente il dissolvimento dello Stato borghese. A Torino andavano moltiplicandosi i consigli di fabbrica, i nuovi organismi di democrazia operaia rivolti all’effettiva direzione delle aziende, in vista di uno sviluppo rivoluzionario. Il movimento aveva il suo centro d’idee nel giornale «L’Ordine Nuovo», fondato da Antonio Gramsci. Ma la realtà era alquanto diversa da quella auspicata o temuta, anche se i continui disordini e l’indebolita autorità statale potevano facilmente essere scambiati per i prodromi della rivoluzione.

Si preparava il terreno che avrebbe portato, di lì a poco, all’avvento del fascismo.

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