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28 Febbraio 2019 - 11:04
Le vicende dei pastori sardi ci riportano a mestieri antichi. Chi serba ancora memoria dei vecchi malgari della pianura torinese? Alla voce specifica, l’ottocentesco «Vocabolario piemontese-italiano» di Michele Ponza offre la seguente definizione: «lattajo, colui che tiene vacche specialmente pel latte, pei prodotti d’esso, come pure quegli che lo vende».
Nella zona fra Chivasso, Volpiano, Leinì e Settimo Torinese, molti allevatori di bestiame erano anche malgari, cioè vendevano latte, burro, ricotta, tomini e altri formaggi freschi. La loro storia di lavoro e di sacrifici è intimamente legata a quella del territorio e delle cascine.
Le mucche si mungevano due volte al giorno, prima dell’alba e durante il pomeriggio, in orari leggermente variabili a seconda della stagione. Il malgaro si accomodava su uno sgabello, puliva le mammelle dell’animale con un po’ di paglia e iniziava a mungere, stringendo fra le ginocchia un secchio di legno (in seguito di latta zincata). Due erano le più diffuse tecniche di mungitura. Tutto dipendeva da come il malgaro piegava il pollice della mano. Chiudendolo all’interno del pugno, l’operazione era più rapida poiché il dito, premendo contro il capezzolo dell’animale, agevolava il flusso del latte. I malgari meno esperti, invece, tenevano il pollice all’esterno del pugno, impiegando così un tempo maggiore.
Appena munto, il latte veniva generalmente filtrato con un colino di rame onde trattenere eventuali impurità e sporcizie (insetti, piccoli frammenti di sterco, ecc.). Il prodotto che i malgari non vendevano né lavoravano direttamente era affidato ai raccoglitori. Questi facevano il giro delle cascine, un paio di volte al giorno, su un carro leggero a due ruote. Fonti d’archivio attestano che i cascinai di Settimo Torinese, nel periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale, esportavano quotidianamente circa diecimila litri di latte.
Per produrre il burro bisognava dapprima separare la panna. A tal fine i malgari si servivano di un apposito mestolo. In piemontese l’operazione era detta «dësfioragi» o «dëscremagi». La zangola o «burera», costituita da un barilotto cilindrico con un’elica all’interno, permetteva di agitare il latte fino a trasformarlo in burro. Ma si trattava di un’operazione lunga e faticosa. Il tempo necessario dipendeva da svariati fattori, fra cui la temperatura dell’ambiente e la regolarità del movimento rotatorio. Per produrre il formaggio si partiva dalla cagliata, ottenuta facendo coagulare il latte col caglio. Quest’ultimo veniva ricavato dall’abomaso dei bovini e degli ovini lattanti: altrimenti si utilizzava la vescica delle trote, opportunamente essiccata e ridotta in polvere.
Alcuni cascinai erano soliti ospitare, ogni anno, qualche mal¬garo dell’alto Canavese che scendeva col bestiame a svernare in pianura. Nel 1906-7 si trovavano in Settimo i seguenti malgari: presso la cascina Spada, Bernardo Chiadò Cottin di Corio; presso la cascina Pista e presso la cascina Tinivella, rispettivamente Giovanni Nepote Polla e Pietro Calzia, entrambi di Sparone; presso la Ratera, Giovanni Aimonetto della valle Soana; presso la Borniola, Giuseppe Ferro (di cui non è nota la località di provenienza). Il 3 aprile 1907, avvicinandosi la data della partenza per i monti, il sindaco di Settimo informò i malgari canavesani che il bestiame diretto agli alpeggi non poteva uscire dal territorio comunale «se non dopo visita e marchiatura», come previsto dalle disposizioni sanitarie allora vigenti. Le due operazioni – si affrettò a precisare il sindaco – sarebbero state eseguite «senza spesa da apposito funzionario».
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