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31 Gennaio 2019 - 10:19
Haec est nostra vera prima locutio
[Questa è la nostra vera prima lingua]
Dante, De vulg. eloq. I, 2
Il rapporto instauratosi tra Dante e la poesia dialettale in Italia si è sviluppato in due direzioni che, pur tra loro diverse, hanno paradossalmente interagito in modo tale da far sì che molti scrittori dialettali abbiano visto il poeta fiorentino come un termine di confronto quasi irrinunciabile rispetto alla loro produzione. Non solo, ma ciò è accaduto sia per i poeti colti che per quelli che, pur definibili come “popolari”, conoscono in realtà, e a volte anche in modo non superficiale, il poema dantesco. Due direzioni, dunque: da una parte il ruolo che l’Alighieri ha esercitato, fin dai suoi tempi, e poi in misura sempre più massiccia (se si esclude, ma solo per quanto riguarda l’aspetto squisitamente linguistico, l’età del Rinascimento: il purismo e il Bembo), sulla cultura, e non solo quella letteraria, italiana; dall’altra, specialmente dal secolo XVII fino all’età romantica, ma in parte ancora ai nostri tempi, la consapevolezza della subalternità che gli scrittori dialettali hanno vissuto nei confronti della letteratura in lingua (di cui Dante, come detto poc’anzi, costituiva il punto più alto), subalternità sintetizzabile nella famosa formula crociana della “letteratura dialettale riflessa”.
Va da sé, a questo punto, che l’opera di Dante ha costituito in vari casi il banco di prova, attraverso la traduzione in lingue minori e/o dialetti, su cui si misuravano le possibilità che queste lingue “subalterne” potevano esprimere in campo letterario, sia attraverso l’uso lessicale e linguistico, che si doveva, ovviamente, raffinare nel confronto col sommo poeta, sia attraverso gli stilemi poetici, che per lo stesso motivo si elevavano ad apici difficilmente raggiungibili dalla poesia dialettale, sia popolare che colta. Tutto ciò ovviamente prima della metà del secolo XX, quando cioè la maggior parte delle letterature minori si emanciparono completamente dai modelli “in lingua” e trovarono una loro propria strada poetica.
Dante, però, non è stato solamente un modello cui rivolgersi allo scopo di recepirlo, attraverso la traduzione, nell’universo della cultura locale che si esprimeva nei dialetti, ma ha avuto anche un altro ruolo importante: quello di essere stato un punto di appoggio, una solida base per molti poeti dialettali che, provenienti in genere dalla borghesia ma anche dalla aristocrazia, portavano normalmente con sé un bagaglio culturale e letterario di origine scolastica, in cui Dante ricopriva il ruolo principale, certamente fondamentale. Da ciò la presenza di “ricordi” danteschi, così come d’altronde anche in molti poeti minori in italiano, in parecchi scrittori dialettali del passato, anche prossimo.
In Piemonte abbiamo quella che in Italia è una delle pochissime traduzioni complete (ricordiamo quella del genovese A. F. Gazzo) e in terza rima, delle tre cantiche della Commedia, cioè il lavoro di Luigi Riccardo Piovano, Divina Commedia, stampato privatamente (in tre volumi) negli anni ’60 (il libro non porta alcuna indicazione né di data né di luogo di stampa) e poi ristampato ultimamente dalla “Cooperativa Pro Piemonte”. Dobbiamo poi proprio ad un canavesano, don Luigi Tessitore (di Montalenghe), nato nel 1863 e morto nel 1949, prima cappellano dell’Ospedale civile di Ivrea e poi, per molti anni, professore di matematica al Seminario vescovile, la traduzione di due episodi dell’Inferno: e precisamente i vv. 70-142 del canto V (episodio di Paolo e Francesca) e l’intero canto X (Farinata degli Uberti). Un altro esempio moderno di specimen di traduzione è quello offerto da Oreste Gallina (1898-1985), che ha presentato una versione del canto I dell’Inferno pubblicata sul numero 18 del “Musicalbrandé, arvista piemontèisa” del giugno 1963; infine ricordiamo il saluzzese Silvio Einaudi, autore della traduzione di due canti dell’Inferno (il II e il V), apparse entrambe sul già citato trimestrale “Musicalbrandé”, rispettivamente sul numero 21 (marzo 1964) e sul numero 20 (dicembre 1963).
Abbiamo ancora alcuni nomi, di tempi più antichi, che troviamo citati in G. Pacotto (Pinin Pacòt), nel suo articolo Dante an piemontèis, uscito su “Ij Brandé, giornal ëd poesìa piemontèisa” del 15 dicembre del 1946: Luigi Joannini Ceva di San Michele, Aldo Marzio Lattuada (1838), Alerame Pallavicino (1933) e Nino Morano, tutti comunque autori di traduzioni parziali. Di queste quella di alcuni passi dell’Inferno ad opera del Joannini Ceva è la più antica, datando al 1829 (in Saggio di poesie piemontesi, edito a Torino e comprendente anche traduzioni da Petrarca, Tasso, Metastasio e Alfieri); quella di Aldo Marzio Lattuada, uscita sull’almanacco “Parnas Piemontèis” del 1838, comprende l’intero I canto dell’Inferno (in sestine) e quella di Nino Morano (del 1931) è, per ammissione stessa dell’autore, una traduzione “goliardica” e riguarda solamente i primi quattro canti dell’Inferno.
Aggiungiamo, per dovere di cronaca, che la Lombardia ci presenta un nome di assoluto rilievo: quello di Carlo Porta (1775-1821), che tradusse (all’incirca negli anni 1801-02) alcuni canti dell’Inferno, mentre in tempi più vicini a noi abbiamo la traduzione dell’intero poema, peraltro metricamente piuttosto debole, del milanese Giuseppe Monga, edita nel 1948. Rimanendo nell’Italia settentrionale, abbiamo ancora il ligure Angelico Federico Gazzo (1845-1926), autore nel 1909 di una traduzione della Divina Commedia (A Diviña commedia de Dante di Ardighé traduta in lengua zeneize), traduzione non parodica ed opera di uno studioso che ebbe come obiettivo (come sottolinea il “genovesista” Fiorenzo Toso) quello di restituire al genovese la sua dignità di lingua romanza, con un lavoro simile a quello, di pochi anni successivo, svolto in Piemonte da Giuseppe Pacotto (Pinin Pacòt) e dalla “Companìa dij Brandé”. In questa ottica ben si comprende lo sforzo dell’autore di tradurre l’intero poema dantesco, proprio a voler dimostrare la ricchezza lessicale e la dignità linguistica del genovese.
Prima di passare a vedere qualche minimo esempio di traduzione, si può riflettere su di una sorta di paradosso: la grandissima fama del poeta fiorentino e la straordinaria importanza della sua opera porta quasi inevitabilmente ad un volersi sottrarre ad un confronto completo con lui. Non ci si può esimere dal misurarsi con la sua figura, ma poi, quando ci si avvicina alle sue terzine, si sente il divario e ci si limita solo, almeno nella maggioranza dei casi, alla traduzione di qualche canto o episodio, evitando anche, spesso, l’uso della terzina, forma metrica di evidente complessità. Quasi naturale conseguenza di ciò è che, nella scelta che ci si impone, si privilegia l’Inferno, evidentemente più vicino (anche per una pluridecennale tradizione critica) a quelli che vengono sentiti come i canoni tradizionali della poesia dialettale: popolare, sanguigna, talora grottesca e in alcuni casi quasi triviale. Resta infine da considerare il fatto che, fino al Sette/Ottocento (e ultimo esempio ne è proprio il milanese Carlo Porta) la Divina Commedia fu spesso anche oggetto di traduzioni in chiave comico-parodistica, fenomeno che è cessato negli ultimi due secoli proprio per la nuova considerazione che si è sviluppata della dignità dei dialetti, sentiti non solo come strumento di comunicazione quotidiana, ma anche di produzione letteraria.
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