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24 Ottobre 2018 - 16:18
La dodicesima battaglia dell’Isonzo cominciò il 24 ottobre 1917. In realtà gli italiani la ricordano sotto un altro nome, divenuto sinonimo di sconfitta disastrosa: la disfatta di Caporetto. Le conseguenze del colossale attacco austro-tedesco che provocò il cedimento del Regio esercito, durante la Grande guerra, si ripercossero pesantemente anche sulla popolazione civile, lontano dal fronte.
In quell’autunno di oltre cent’anni fa, molti centri del Piemonte accolsero famiglie di profughi veneti. A Settimo Torinese giunsero circa sessanta persone, fra cui una decina di bambini in tenera età, provenienti dalle zone di guerra (Buia, Monfalcone, Fiera, Vittorio Veneto, Pieve di Soligo, Preone, ecc.). Alcune trovarono alloggio nella cascina Isola, altre in varie case del centro e della campagna. Dei loro bisogni si fece carico una commissione – nominata dalla giunta municipale in seguito a una circolare prefettizia – di cui facevano parte, fra gli altri, il parroco Domenico Gobetto e l’ufficiale sanitario Martino Crolle. Nel corso del 1918 il numero dei profughi salirà a cento: più di venti erano originari delle «terre irredente», soprattutto di Brentonico, nel Trentino.
Molte amministrazioni pubbliche si affannarono per esprimere solidarietà ai soldati che resistevano all’avanzata nemica. Angelo Chiarle, sindaco di Settimo, inviò persino un messaggio all’onorevole Vittorio Emanuele Orlando, il quale aveva sostituito il dimissionario Paolo Boselli alla guida del governo italiano. «La popolazione settimese – telegrafò – è col re e col governo che hanno fede nell’indipendenza e libertà della Patria, frutto [di] tanto sangue prezioso, monumento migliore che la razza invitta abbia potuto creare a se stessa». E proseguì con crescente enfasi: «In questa vigilia densa di pericoli, ma gravida sicuramente della nostra gloria definitiva, lanciamo il vecchio motto sabaudo: ni potior morior». Il 13 novembre, Orlando rispose con un sobrio telegramma, compiacendosi «vivamente dei sentimenti di fervido patriottismo» della popolazione.
Le iniziative a sostegno dello sforzo bellico s’intensificarono. A Settimo, in regione Proglia, entrò in attività il Laboratorio torpedini. Sotto la direzione del maggiore Luigi Bettica si fabbricavano spezzoni esplosivi, di grande efficacia per distruggere i reticolati delle trincee nemiche durante gli assalti della fanteria. A tal fine fu necessario occupare svariati terreni e edifici, fra i quali la cascina Froccione, quattro fornaci abbandonate che sorgevano nelle vicinanze e una parte della cascina Nuova.
Oltre a soldati italiani, nel Laboratorio torpedini trovarono impiego numerose maestranze civili militarizzate. La militarizzazione comportava l’osservanza di ferree regole. La disciplina in fabbrica era mantenuta da graduati dell’esercito. Per un minimo di dieci ore lavorative al giorno, gli uomini percepivano una paga oraria variabile fra i quaranta e i sessanta centesimi; le donne – tutte profughe di guerra oppure appartenenti alle famiglie più povere di Settimo – ricevevano una retribuzione inferiore, oscillante fra le tre e le quattro lire giornaliere. Il personale femminile era adibito a confezionare le micce e gli involucri di carta per gli ordigni esplosivi. Nel Laboratorio torpedini furono anche assunti parecchi bambini, poi licenziati nel maggio 1918 in ottemperanza alle norme che escludevano dai lavori militari i fanciulli d’età inferiore ai tredici anni e le ragazze d’età inferiore ai diciassette.
Disastrosa la rotta dell’esercito italiano a Caporetto, triste l’autunno del 1917…
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