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18 Ottobre 2018 - 09:36
Fino a una ottantina di anni or sono, molti conosce¬vano Settimo Torinese unicamente perché era il luogo da cui arrivavano nella vicina città, ogni lunedì, di buon’ora, le lavandaie e i lavandai, i «deposita¬ri dei più intimi segreti di famiglia», per dirla con Alberto Viri¬glio, acuto osservatore della vita di fine Ottocento all’ombra della Mole Antonelliana. L’appellativo di «paese dei lavandai» era condiviso coi limitrofi centri di Bertolla, Barca, San Mauro e Mappano. Nel 1974 scriveva Roberto Gervasio: «Attraversando il ponte Amedeo VIII, gettato sulla Stura, si raggiungono, a levante, le frazioni […] della Barca e di Bertolla, sede ufficiale… dell’accademia del bucato, una tipica istituzione artigiana locale promossa per lavare in famiglia i panni sporchi dei torinesi (!) e recante per insegna professionale… un lenzuolo candido sciorinato al sole».
In una cronaca risalente al periodo fra le due guerre mondiali si fantastica sul luogo di residenza dei lavandai: «Un mondo […] che ci fa pensare al presepio meccanico della nostra infanzia, chissà perché, forse per il ricordo di quella lavandaia di cartapesta che, curva su un fiumicello di stagnola, sbatteva e sbatteva senza requie dei panni di carta che facevano un rumore secco e pareva che la sua fatica non dovesse finir più, che avesse da lavare tutti i panni dell’umanità, in un lavoro ormai fisso per l’eternità di una missione penosa e benefica, che a poco a poco pareva terribile, obbligata come un incubo, e si pensavano più felici i pastori che, con pecore e cammelli, percorrevano senza posa l’estremo limite azzurro dell’orizzonte».
A differenza dei lavandai di altre zone della pianura padana, quelli del Torinese non lavavano direttamente i panni nel Po, ma in canali per lo più alimentati da rogge che derivavano l’acqua dalla Stura di Lanzo. Per tale motivo, le loro case – dette, in piemontese, «ciabòt dla lëssìa» ovvero casupole del bucato – sorgevano sempre nei pressi di una «bealera». Italo Calvino, nel 1958, osservò che «le lavanderie non si vedevano» dalle «strade carrozzabili». Occorreva cercarle, «cacciando gli occhi per ogni cancello d’aia e ogni sentiero». «Ero uscito – scrisse – a poco a poco dall’abitato, e le file dei pioppi si facevano a ridosso della strada, segnando le rive dei frequenti canali. E là in fondo, oltre i pioppi, vidi un prato veleggiante di bianco: roba stesa».
I panni sciorinati dai lavandai facevano parte del paesaggio, confondendosi col verde dell’erba e l’azzurro del cielo, fra la collina e le montagne. Si deve a Calvino la descrizione dei «larghi prati […] attraversati da fili ad altezza d’uomo»: «a questi fili erano appesi ad asciugare, uno dopo l’altro, i panni di tutta la città, ancora molli di bucato e informi, tutti uguali nelle grinze che la stoffa faceva al sole». «Per ogni prato intorno – aggiunse lo scrittore – si ripeteva questo biancheggiare delle file lunghissime di panni». E non mancavano i prati «spogli, ma anch’essi attraversati da fili paralleli, come vigneti senza viti».
In Settimo, poiché la zona più ricca di acque fluenti era quella meridionale, i lavandai costruirono le loro abitazioni prevalentemente a sud del terrazzo naturale che taglia il territorio, da est a ovest, oppure in luoghi che presentavano analoghe caratteristiche. Alla casa erano annessi il laboratorio e la stalla: in quest’ultima si ricoverava il cavallo, indispensabile per il trasporto della biancheria, e talvolta una o due mucche, nutrite con l’erba dei prati dove si stendevano i panni puliti.
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