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06 Ottobre 2018 - 18:34
Don Angelo Bianchi
Il titolo della serata era inequivocabile: “L’invasione di popoli tra <Pacchia> e Torture” e, com’è facile intuire, i soggetti di cui si trattava erano “Migranti, Profughi e Richiedenti asilo”. L’incontro organizzato giovedì 20 settembre a Castellamonte dai circoli territoriali del Partito Democratico non poteva avvenire in una data più appropriata, venendo a coincidere con quella in cui il governo ha emanato il decreto anti-immigrati: ed è stato, almeno nella prima parte, molto interessante. Invece di parlare dei Migranti, dei Richiedenti Asilo e dei Rifugiati (categorie differenti sulle quali si fa molta confusione) li si è fatti parlare, offrendo una testimonianza diretta ed assai persuasiva dei vari aspetti che il complesso fenomeno migratorio presenta.
Un po’ meno efficace la seconda parte della serata, durante la quale sono intervenuti politici ed amministratori del PD: non per ciò che hanno detto ma per ciò che è mancato. Chiarissima la presa di posizione in favore dell’accoglienza, condivisibili le analisi della realtà attuale ed i giudizi su chi soffia sul fuoco per interessi di bottega ma sono mancate proposte concrete, come ha fatto rilevare il parroco di Castellamonte don Angelo Bianchi: “Accogliere è facile, basta avere dei locali a disposizione. Il problema è cosa fare dopo perché ci sia vera integrazione. Nosiglia ha fatto molto, noi della diocesi di Ivrea un po’ meno ma stiamo ipotizzando un progetto per creare un legame duraturo fra chi accoglie e chi è accolto. Non vorrei che ci nascondessimo dietro l’immigrazione per dimenticarci che i problemi della disoccupazione, delle fabbriche che chiudono, delle case che mancano non nascono oggi ma sono retaggio del passato. Se non vogliamo che la gente ci accusi di cose false, c’è bisogno di riflettere su cosa fare”.
Quel che è mancato soprattutto, in quell’incontro, è stato il confronto con il momento attuale: le cose che si sono dette sarebbero andate bene qualche mese fa ma la situazione odierna è differente e ben più grave. Si tratta di una critica che viene dall’interno del PD, dai suoi militanti e simpatizzanti: “Non si è tenuto conto di quel che è accaduto oggi: il Decreto Salvini cambia tutto e distrugge quanto di positivo si era riusciti a costruire. Di questo si sarebbe dovuto parlare”.
Gli interventi dei politici
In apertura era stato il segretario del Circolo PD di Castellamonte Luca Chiartano a collocare qualche puntino sulle i: “Si fa molta confusione quando si parla di migrazioni, mettendo insieme chi fugge e chi lucra su chi fugge. Lo si vede come un problema di sicurezza sociale e basta mentre l’emigrazione è una questione sociale, politica ed economica molto complessa. Nell’ultimo mese, dopo la vicenda della nave “Diciotti”, è passato il messaggio che <Ormai non sbarca più nessuno!>. In questo mese invece a Lampedusa sono arrivate 20.000 persone ma non lo si dice”.
Tra i luoghi comuni che si sono imposti – ha fatto rilevare l’eurodeputato Brando Benifei - “vi è la frase <Perché nel Parlamento Europeo l’Italia è stata lasciata sola?>. Anche l’Italia è Europa e chi ci governa si è messo volutamente nella condizione di non essere aiutato: Orban e gli amici di Salvini non vogliono risolvere i problemi ma esasperarli. Servono norme nazionali e norme europee ed avere uno <sguardo lungo> che oggi non c’è”.
La deputata Francesca Bonomo concorda: “Il governo attuale non vuole risolvere le difficoltà ma utilizzarle come armi di distrazione di massa. E’ lecito avere paura e si può temere chi è diverso da noi però i messaggi sbagliati ci allontanano dalla soluzione”.
I problemi maggiori, ormai tutti lo sanno, nascono là dove si concentrano grandi quantità di persone in strutture incontrollabili. Il modello positivo è quello dei Centri S.P.R.A.R, che funzionano bene con la loro accoglienza fatta di piccoli numeri e di collaborazione con il territorio: il consigliere regionale Daniele Valle ha citato l’esempio di Riace, la Bonomo quello di Chiesanuova. Eppure è proprio questo tipo di strutture che il decreto Salvini vuole smantellare, puntando tutto sui C.A.S. ovvero sui Centri di Accoglienza Straordinaria, dove la permanenza dovrebbe essere breve (e spesso non è così). Ancora Valle ha sottolineato come lì siano le prefetture a decidere, senza alcun collegamento con le realtà locali. Ne è un esempio Castellamonte, come ha spiegato l’assessore alle Politiche Sociali Patrizia Addis: “Abbiamo quattro cooperative e non sappiamo nemmeno con precisione quante persone ospitino (forse 135 o 138 ma c’è chi parla di 165): i C.A.S. non hanno nessun obbligo di informare i Comuni. Con numeri del genere è difficile raggiungere l’integrazione eppure è proprio su questo tipo di strutture che si vuole puntare. Si prospetta la creazione di veri e propri campi di concentramento : dove andremo a finire?”.
Le storie
Malik arriva dal sud del Senegal: “Non ci sentiamo senegalesi e siamo discriminati: per noi è difficile trovare un lavoro. Sono partito senza dirlo a mia madre, che non voleva, passando dal Mali per poi attraversare il Burkina Faso, il Niger, fino ad arrivare in Libia”. “Come sei entrato a Tripoli?” gli ha chiesto il conduttore della serata Fabio Trocino, esponente del Comitato per i Diritti Umani della Regione Piemonte. “Su un camion coperto da un telone: eravamo in 120 o 130. A Tripoli mi hanno venduto e per 16 giorni sono stato tenuto in una prigione senza mangiare. Per potermi imbarcare hanno preteso altri soldi e me li sono fatti mandare da mia sorella ma la barca era bucata. <Non salgo!> ho detto ma mi hanno costretto. Quella notte sul mare è stata terribile: la gente urlava, piangeva, ed io non sapevo nuotare”. Dopo il salvataggio e lo sbarco a Messina, venne mandato a Settimo, poi a Sant’Antonino di Susa “dove non avevano mai visto individui di colore. Ma poi abbiamo capito che erano persone buone e lì ho trovato una seconda famiglia”. “Cosa fai qui: rubi? spacci?” - gli ha chiesto Trocino. “Sto facendo il tirocinio in un supermercato: la mia laurea in Italia non vale. Le cose si sono rivelate più difficili del previsto: tornerei nel mio Paese, là ho la mia famiglia. Non posso farlo perché manca il lavoro”.
Abdullahi Ahmed, oggi mediatore culturale, è somalo, altro <paese di pacchia>, in guerra da trent’anni. Da dieci vive nel nostro Paese e due anni fa ha ottenuto la cittadinanza. “Qualcuno di voi si è chiesto il perché di questo stato di guerra e quali siano le responsabilità dell’Italia, di cui siamo stati una colonia? Mi chiedo perché non possiamo anche noi guardarci negli occhi e discutere senz’armi come gli europei, che non si fanno la guerra da settant’anni: unità nella diversità!”. Abdullah è molto impegnato nelle politiche d’integrazione anche attraverso il Festival dell’Europa Solidale e guarda al Manifesto di Ventotene, sul quale si fonda l’Europa Unita, come ad un modello da imitare. “Mentre c’era la guerra, qualcuno un po’ utopista, confinato in un’isola, si è messo a scrivere questi principi, che sono poi diventati realtà”.
Insaf Dimassi, ragazza bolognese di origine tunisina, non ha alle spalle vicende terribili ma vive una situazione di precarietà che è l’emblema di come questo Paese sia bravo a farsi del male da solo, creando problemi dove non ce ne sarebbero. “Sono qui per parlare dello <Ius Soli> perché è importante. Non è vero che la legge attuale va benissimo: va bene per chi è arrivato qui da adulto ma per noi no. Il nostro Paese investe tantissimo sui di noi, ci paga la scuola (che costa), ma non ci permette poi di lavorare e di mettere a frutto ciò che abbiamo studiato”. La sua storia è simile a quella di tantissimi altri ragazzi, nati in Italia ed italiani a tutti gli effetti ma che, una volta compiuti i diciotto anni, entrano in un limbo. “Tutta la mia famiglia è naturalizzata, io no. Perché? Perché la cittadinanza è stata concessa ai miei genitori quando avevo già compiuto i diciotto anni ( da 20 giorni…) e quindi non ne avevo più diritto. Non posso richiederla per conto mio in quanto non ho un reddito abbastanza alto. Se oltre allo <Ius sanguinis> valesse anche lo <Ius culturae> sarebbe un vantaggio per tutti”.
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