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29 Agosto 2018 - 17:15
Non c’è settimese che non abbia transitato su quel maledetto ponte. Per lavoro, per rivedere il paese lasciato tanti anni fa e ancora amato, per andare semplicemente al mare, visitare le Cinque Terre, o l’acquario o imbarcarsi sopra un traghetto e via, viaggiare. Là sopra, almeno una volta ma forse più ci siamo passati tutti, ammirati da un’opera che l’ingegno e la fatica dell’uomo avevano prodotto non in America, non in Giappone, ma qui da noi, nel Bel Paese una volta bello davvero, oggi un po’ meno.
L’Italia sembra bistrattata e divisa al punto, viene da pensare, che una sua parte, quella ricca o ricchissima, se ne frega bellamente del prossimo, tanto da non preoccuparsi neanche della sua sopravvivenza. E nemmeno della propria, dal momento che là sopra poteva esserci chiunque, anche il capo della baracca andata giù.
…E poi c’è il destino, fanculo. È una questione di secondi: se uno degli autisti avesse preso un caffè in più, se un bimbo o una bimba si fosse addormentato un istante prima, o dopo, se quelle auto e quei TIR si fossero trovati qualche metro più avanti, o più indietro, non importa, il viadotto sarebbe crollato da solo, che era un guaio sì, ma soltanto un guaio, non una tragedia irrimediabile. Fossi al posto dei padroni della Autostrade passerei il resto dell’esistenza a chiedere perdono: alle vittime e ai loro familiari rimasti qui a far cosa non si sa, ai feriti alcuni dei quali non avranno mai più una vita normale, ai lavoratori che hanno perso o stanno perdendo il posto, al paese intero che va in briciole a causa di chi, come loro, ha anteposto il profitto alle persone, e non solo l’ha anteposto, ma ne ha fatto l’unico obiettivo, il senso della vita, la propria, a scapito di quella altrui.
I 500 milioni (o mille che siano) e la ricostruzione sono cose scontate, dovute: cazzuola in una mano, cemento e cavi d’acciaio nell’altra, quella roba va rimessa in piedi rapidamente e bene. Il resto dei giorni, però, a Canossa, in ginocchio, a domandare scusa, misericordia e pietà per ciò che è stato fatto a loro e, un po’, anche per ciò che è stato fatto a noi.
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