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04 Aprile 2018 - 16:22
STILE E SCRITTURA Tutto cominciò nel 1912 con Luigi Pagliero
Capita talvolta che qualcuno s’interroghi sui motivi per cui Settimo Torinese divenne la «capitale internazionale» degli articoli per la scrittura? Quali fattori ebbero un ruolo propulsore? Quali personaggi vi contribuirono, scrivendo così una pagina di rilievo nella storia economica locale? A chi conosce i fatti, le risposte possono forse apparire ovvie. Come tacere dei notevoli traguardi raggiunti dalle aziende locali, per lo più a partire dal secondo dopoguerra, spesso in condizioni poco favorevoli e senza aiuti sostanziali dall’esterno? Come non porre l’accento sulle capacità degli operatori settimesi (un tempo operai e piccoli artigiani nella quasi totalità, in seguito imprenditori) che seppero diversificare le produzioni in base alla ricettività dei mercati e al gusto del pubblico?
Le tappe di una storia ultrasecolare sono facilmente sintetizzabili. Attorno alla metà del diciannovesimo secolo, nel Piemonte di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, la famiglia Pagliero diede impulso alla fabbricazione dei bottoni in osso, un’attività che poté svilupparsi soprattutto dopo l’unità d’Italia. Di ritorno dal Veneto nel 1912, Luigi Pagliero iniziò a lavorare l’avorio, la tartaruga e nuovi materiali come la galalite e la celluloide: fu la prima fase di un lungo e complesso processo di diversificazione produttiva. Avventuratosi nel campo delle matite a mina scorrevole e delle stilografiche, Pagliero venne presto imitato dai «veronesi» (Favetta, Giacomazzi, Draba, ecc.), lavoratori immigrati con le famiglie da Caprino, alle propaggini meridionali del Monte Baldo, fra il lago di Garda e la valle dell’Adige.
A produrre penne, in pieno secondo conflitto mondiale, si dedicarono in molti: lavandai, artigiani, negozianti, meccanici e così via. Finita la guerra, in un contesto economico assai mutato, coloro che perseverarono nel settore furono quasi necessariamente spinti a migliorare gli articoli, a puntare sulle materie termoplastiche, a incrementare le produzioni e poi ad automatizzare gli impianti, cercando nuovi spazi di mercato con le penne a sfera e le penne a feltro (i «pennarelli»). Di lì i notevoli risultati conseguiti dall’industria di Settimo nel suo complesso.
Per quanto limitativa, questa chiave di lettura degli eventi presenta un’intrinseca validità purché si ricordi che gli operatori del ramo – i «piumista», come erano detti a Settimo – non seguirono rotte predeterminate in vista di precisi approdi, specie sino agli ultimi anni Sessanta dello scorso secolo. In altri termini, nessuno ebbe piena coscienza delle caratteristiche, delle implicazioni e dei limiti assunti da una crescita davvero sbalordiva del settore. Forse non ha torto chi sostiene che la penna riuscì a incanalare, dal dopoguerra in avanti, un autentico torrente d’oro il quale, però, non inondò ma soltanto lambì Settimo.
Il mercato ha contribuito a selezionare drasticamente le aziende locali, eliminando o ridimensionando quelle che non hanno saputo o potuto starvi al passo. Si tratta di tristi vicende, ben note ai settimesi. In un contesto di forte globalizzazione dell’economia, temibili concorrenti dall’Est europeo e dall’Estremo Oriente sono riusciti a conquistare quote di mercato in tutto il mondo, grazie al bassissimo costo della manodopera. Più che in Italia, gli articoli dell’Estremo Oriente hanno colpito gli operatori settimesi all’estero. È il capitolo recente di una storia, quella della penna, che ha origini lontane.
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