Al termine dell’udienza è arrivato anche il monito del giudice Elena Stoppini. “Mi raccomando signora, se lo vede ancora, non esiti a chiamare i carabinieri e a denunciarlo. Non lasci più passare tutto questo tempo...”. Si è chiuso giovedì, in un’aula del tribunale di Ivrea, il processo a carico di Alberto Bozzo, 64 anni, chivassese che, difeso dall’avvocato Filippo Amoroso del foro di Ivrea, s’è ritrovato imputato del reato di stalking (articolo 612 bis). Bozzo è stato condannato dal giudice Stoppini, che ha accolto in toto la richiesta formulata dal pm Michela Bedognè, a dieci mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali. La vittima delle attenzioni dell’uomo, che non si è costituita parte civile nel procedimento e che è stata ascoltata la scorsa settimana come testimone, è una commerciante chivassese sulla cinquantina. Titolare di un negozio di fiori, è stata per 15 anni oggetto delle attenzioni e degli atteggiamenti persecutori di Alberto Bozzo. “Quell’uomo ha fatto appostamenti, telefonate, di giorno e di notte, cercando un approccio con la vittima che però ha sempre manifestato la volontà di non avere a che fare con lui - ha detto il pm -. Ha messo in atto atteggiamenti persecutori che hanno generato un perdurante stato d’ansia della donna”. I primi segnali di un’attenzione “particolare”, non ricambiata, sono arrivati quindici anni fa. Ma il primo esposto della vittima ai carabinieri giunge solo nel 2013. E la denuncia formale al comando di via XXIV maggio nel febbraio 2015, quando dopo l’ennesimo appostamento sotto casa la donna, spaventata, e con il sostegno della nipote, si decide a contattare le forze dell’ordine. “Iniziamente Bozzo viveva sopra la mia attività - ha raccontato la commerciante chivassese, vittima di stalking -. In principio era un semplice cliente del mio negozio. Poi, un giorno, ricevetti una telefonata strana: mi chiedeva come fossi messa sentimentalmente. Lì per lì non diedi troppo peso, io sono una donna che vive sola da 23 anni, non diedi grande importanza a quella domanda...”. Ma da lì in poi è l’inizio dell’incubo. “Ha cominciato a farmi piccoli regali che io puntualmente gli restituivo - ha riferito in aula -. Mi scriveva nei giorni di festa, aveva scoperto quand’era il mio compleanno e mi mandava biglietti e messaggi d’auguri. Con il tempo la situazione è andata via via peggiorando. Ha iniziato a chiamarmi a casa, di giorno ma a volte anche di notte. Lo trovavo appostato di fronte al mio negozio ad aspettare che io arrivassi a lavoro. Ho temporeggiato con la denuncia perché pensavo che si scoraggiasse, ma quando l’ho affrontato e lui mi ha risposto che io non volevo avere a che fare con lui perchè avevo la mia famiglia vicina, augurando la morte a mio padre e mia madre, mi sono decisa ed ho presentato il primo esposto ai carabinieri”. Era il 2013. Da lì in poi la situazione non è cambiata molto. Anzi. Ironia della sorte, Bozzo subisce una procedura di sfratto ed è costretto a lasciare l’abitazione, allontanandosi dal negozio della vittima. Ma... “Ma Ciss e Comune gli trovano una casa che, non ci crederà signor giudice, era a due portoni dalla mia, sempre a Chivasso - ha spiegato la vittima di stalking -. Me lo trovavo spesso, la sera, quando tornavo a casa di fronte al portone. Io lo affrontavo e lui spariva. Ma era una situazione insostenibile. Io vivevo con l’ansia e i miei genitori erano preoccupati per me: mio padre spesso mi accompagnava a casa dal lavoro, per evitare che mi si avvicinasse”. La goccia che ha fatto traboccare un vaso già ampiamente colmo arriva una sera di febbraio dell’anno scorso. “Mi chiamò mia nipote (sentita anche lei in aula la scorsa settimana, ndr) - ha concluso la donna -. Saranno state le 19.30 di sera ed io ero ancora in negozio. Mi disse che c’era quell’uomo che, sotto casa mia, guardava su verso la mia finestra. Fisso, immobile. Mi precipitai a casa, ma lui non c’era più. Con mia nipote chiamammo i carabinieri...”. L’avvocato Filippo Amoroso, di contro, aveva chiesto l’assoluzione dell’uomo perché il fatto, a suo dire, non costituisce reato. “La prova che abbiamo oggi sono tre bigliettini d’auguri indirizzati alla donna e il fatto che un uomo si fermava sotto l’abitazione in cui viveva. Processiamo e condanniamo un uomo perché guardava?”, ha domandato il legale, in conclusione della sua arringa difensiva.
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