Nell’agosto 1995 il quotidiano “la Repubblica” pubblica un articolo su Montanaro con un titolo clamoroso: “Era nascosta vicino a Torino la discarica tossica della mafia”. Il giornalista racconta un fatto noto in paese: l’alluvione del novembre 1994 aveva “scoperchiato” una cava, nel senso che aveva fatto scoprire “contenitori con rifiuti tossico-nocivi scaricati abusivamente in una cava” che “stavano per inquinare le falde acquifere”. Il Corriere della Sera riferisce dichiarazioni di Aldo Faraoni, allora capo della Criminalpol torinese: “Siamo andati sul posto e abbiano visto qualcosa che ribolliva nel laghetto della cava, macchie rossastre e gas maleodoranti, sparsi su un’enorme area piena di rifiuti solidi urbani e prodotti chimici”. L’anno dopo, appunto nell’agosto 1995, a Torino il procuratore Giancarlo Caselli racconta in una conferenza stampa che da tempo gli investigatori, grazie alle intercettazioni, erano sulle tracce dei protagonisti di un business illegale: lo smaltimento di rifiuti nocivi in varie cave della penisola. Una delle cave in questione era la cosiddetta “cava Borra” di Montanaro. In località Pratomoriano, a circa 200 metri dall’Orco, a Sud/Sud/Ovest dell’abitato, in una zona esondabile e quindi pericolosa per gli abitanti delle frazioni chivassesi di Montegiove e Pratoregio. Venti anni dopo, il 4 giugno 2014, “Narcomafie”, mensile del Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, ricostruisce dettagliatamente la vicenda nel lungo articolo “La cava dell’Orco”. L’articolista rileva che nei due decenni successivi le indagini non sembrano avere condotto ad individuare le responsabilità. Ma altre domande, riguardanti le condizioni ambientali dell’area, restano senza risposta: quali sostanze pericolose c’erano nella cava? Sono state tutte asportate? Il terreno, e il sottosuolo, è stato bonificato? La cava aveva avuto una storia tormentata anche prima dell’alluvione del 1994. Aperta negli anni Settanta, subisce dal Comune ripetute ordinanze del sindaco per mancato rispetto delle prescrizioni: nel 1988, nel 1991, nel 1992, nel 1993. Curiosamente, per due volte la Regione si rimangia lo stop ai lavori. Nel 1981 l’ente regionale esprime parere non favorevole alla prosecuzione dell’attività estrattiva. La proprietà presenta una nuova richiesta di autorizzazione accompagnata da una relazione del Geostudio di Accattino, e la Regione autorizza. Lo stop and go si ripete nel 1994, nei mesi precedenti l’alluvione: la Regione prima nega l’autorizzazione, poi la concede dopo avere esaminato una nuova relazione che Geostudio ha redatto per la proprietà. E nel novembre 1994 arriva l’alluvione che porta alla luce i rifiuti nascosti. Ma gli ambientalisti montanaresi continuano a chiedersi se l’area è stata bonificata in modo da evitare rischi di inquinamento del terreno e delle falde acquifere. Nel sito del comitato Restiamo Sani troviamo altri dati. Pochi giorni dopo l’esondazione il Centro Analisi Conal riscontra massicce tracce di solventi clorurati e idrocarburi nei campioni prelevati nelle immediate vicinanze della Cava Borra, al di fuori dalla zona posta sotto sequestro. Il rapporto conclude: “... si può supporre che la situazione all’interno, nella zona sequestrata, sia più allarmante”. Nel 1995 il circolo Legambiente presenta un esposto alla magistratura. Nel 1996 la Lega Nord deposita in parlamento un’interrogazione nella quale si lamenta la mancata bonifica e nella quale si legge: “I rifiuti tossico-nocivi sono sottoposti al continuo dilavamento delle piogge con ulteriore aggravio dell’inquinamento del territorio circostante”. E ora, vent’anni dopo, a che punto siamo?
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