Le vicende quotidiane, gli impegni consigliari che si susseguono senza sosta, ieri a fermare lo smantellamento del reparto di oncologia, i posti di lavoro di Cic o Olivetti, oggi a capire se esiste ancora un edificio pubblico senza amianto o a stigmatizzare un Sindaco che se ne va in giro a votare per la sua Città, che è anche la nostra, senza manco farlo sapere al suo Consiglio Comunale o emette, con la sua Giunta, delibere che si occupano del futuro del territorio, senza neppure averne fatto un argomento di confronto, possono fare persino passare in secondo piano una ricorrenza come quella del Centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale. Riparo a tale manchevolezza con l’ausilio dell’amico Gaetano Rasi, ora Presidente Onorario del CESI, Istituto di Studi Politici ed Economici di Roma, di cui sono stato consigliere per molti anni, carica a cui ho dovuto recentemente rinunciare per l’impossibilità ad ottemperare agli impegni conseguenti. Finora, malgrado si sia sottolineato che la Quarta guerra d’Indipendenza, denominata poi Prima Guerra Mondiale, abbia segnato l’inizio di una nuova epoca, solo limitatamente si è posto in evidenza l’aspetto sociologico che insieme con quello economico, ha caratterizzato quell’evento storico. Tre decisivi mutamenti nella società italiana sono derivati da quel grande conflitto: la formazione di una nuova classe dirigente interessante tutti i settori economico-sociali; il maggior peso della componente femminile all’interno delle famiglie e nella vita nazionale; l’amalgama tra le popolazioni delle varie regioni d’Italia, specie tra quelle del centro-sud con quelle del nord. Per il primo aspetto, va considerato che fin dall’inizio della guerra a coprire i ruoli degli ufficiali di grado inferiore e dei sottufficiali furono chiamati giovani ventenni o poco più che avevano un titolo di studio. Alla fine del conflitto tutti questi ufficiali e sottufficiali avevano acquisito capacità organizzative e logistiche nelle condizioni più diverse. Una volta congedata, questa generazione portò nella vita civile una maturazione che altrimenti non avrebbe conseguito. Nacque quella classe dirigente che nei decenni seguiti la Grande Guerra organizzarono la vita pubblica ed economico-sociale del Paese. Più ancora però l’effetto positivo si sviluppò in sede economica e sociale dove la capacità organizzativa e l’arte del comando diedero i loro frutti nel creare nuove imprese, nell’ammodernare quelle già esistenti, nella conversione dalla produzione di guerra alle attività ed efficienze dell’economia di pace. È dell’epoca subito posteriore alla Prima guerra mondiale la prima industrializzazione dell’agricoltura: basti pensare alle iniziative gestite dalla Opera nazionale combattenti (ONC). Una delle quali fu la “battaglia del grano” per ottenere una maggiore produzione di cereali dagli stessi areali agricoli che prima ne producevano 5/6 volte di meno. La ricerca scientifica e tecnica, avviata e affinata per scopi militari, si ripercosse nella qualità e nell’ampliamento dell’industria manifatturiera. Ne trasse vantaggio l’industria navale con la costruzione di famose grandi navi per il trasporto dei passeggeri e delle merci e per il potenziamento delle flotte della Marina civile e militare. Si affermò l’industria automobilistica che puntò a dotare un sempre maggior numero di italiani di automezzi di costruzione nazionale; come pure è da ricordare la nascita dell’industria aeronautica che dotò di apparecchi costruiti in Italia la propria compagnia di bandiera, oltre ad effettuare l’esportazione di velivoli in vari Paesi europei ed extraeuropei. Passando ad altro argomento, pochi hanno posto attenzione al ruolo assunto dalle donne in Italia in conseguenza della Prima guerra mondiale e alla posizione da esse assunta nei decenni successivi. Naturalmente, poiché la maggior parte degli uomini prima impiegati in agricoltura furono mandati al fronte, a lavorare la terra si impegnarono le donne e da ciò esse assunsero la consapevolezza di essere capaci, oltre che di allevare figli, anche di produrre direttamente al posto degli uomini. Sui 5 milioni e 760 mila richiamati alle armi dal ‘15 al ‘18, ben 2 milioni e 600 mila furono lavoratori agricoli. Ciò provocò una diminuzione di oltre il 50% di uomini adulti addetti ai lavori dei campi e ciò nell’ambito di un calo complessivo di unità lavoratrici in tutti i settori agricoli di circa un terzo. Se il lavoro femminile insieme con quello, naturalmente in quantità inferiore, dei ragazzi e degli anziani, poté sostituire quello dei richiamati al fronte va tenuto presente che questa sostituzione non avvenne in maniera uniforme in tutto il Paese. Al Nord infatti, a causa di contratti particolari, già vi era l’apporto produttivo del lavoro femminile, mentre al Sud non esisteva se non in modestissima quantità la tradizione del lavoro femminile in agricoltura. Tutto ciò produsse effetti interessanti l’evoluzione della psicologia riguardante la condizione sociale femminile. Le donne, specialmente nella società centro-meridionale, assunsero un maggior peso nell’ambito delle decisioni all’interno delle famiglie. Ma vi fu anche un altro fenomeno di notevoli proporzioni: un notevole numero di donne della media e piccola borghesia cittadina si impegnarono come Crocerossine. Da ciò nacque un orgoglio non solo patriottico, ma anche di consapevolezza professionale e di indispensabilità sociale. Se ne ebbero gli effetti negli anni del dopoguerra quando, l’aver come precedente partecipato in quel ruolo alla guerra vittoriosa, costituì un titolo preferenziale sia nel lavoro (specie nell’insegnamento nei vari ordini e gradi scolastici), sia nell’accesso alle attività all’interno dei pubblici uffici che nelle attività private direttamente produttive. Il terzo aspetto da sottolineare fu quello di abituare gli italiani dei vari territori della Penisola, abituati ad usi e a dialetti diversi, a stare insieme e ciò avvenne nelle condizioni più drammatiche quale furono quelle, per esempio, delle trincee. Già D’Azeglio aveva detto al momento dell’Unità d’Italia: «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». E la storica occasione fu data soprattutto dal conflitto svoltosi dal ‘15 al ’18. Ben oltre 5 milioni di italiani provenienti da tutte le plaghe del Paese furono concentrati ai confini tra il Trentino e la Venezia Giulia. Fu certo una conoscenza reciproca fatta per molti anche nella condivisione di grandi sacrifici e di dolorose perdite di vite umane, ma tutti furono orgogliosi di aver preso parte all’evento. Nacquero amicizie personali. Moltissimi furono i matrimoni fra combattenti di origine meridionale e donne del Nord, lombarde, piemontesi, emiliane e soprattutto venete.
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