L’importanza della scuola e degli insegnanti per la conservazione delle lingue minoritarie e, nel caso specifico, del Patois francoprovenzale, è stata al centro dell’incontro che l’EFFEPI ha organizzato di recente a Pont in collaborazione con il locale assessorato all’Istruzione. I concorsi, in particolare, si sono rivelati uno strumento fondamentale per attrarre l’interesse e l’attenzione degli studenti ma anche delle loro famiglie. “Proprio con un concorso per le scuole iniziammo la nostra attività, trentatré anni fa” – ha detto la presidente dell’associazione Ornella De Paoli. Poi vennero i corsi, gli incontri, i convegni. “Iniziative rese possibili dalla legge che tutela le minoranze linguistiche - ha ricordato la vicesindaco ed assessore all’Istruzione di Pont Silvana Ferrero – ma ora quei fondi non ci sono più”. Le difficoltà sono state confermate dalla De Paoli: “Tutto ciò che facciamo, ormai, è a titolo di volontariato e lo sarà sempre di più. Anche dalla Valle d’Aosta arrivano notizie di tagli...”. Il Concorso Effepi per le Scuole dell’Obbligo delle Valli francoprovenzali ha quest’anno come tema le erbe: “Le Erbe delle nostre montagne: usi culinari, medicinali, magici…antichi saperi, nuove opportunità”. Alla cerimonia di premiazione, che avrà luogo in maggio a Coazze, parteciperà anche una scolaresca valdostana, nell’ambito della collaborazione in atto da anni tra il Concorso Effepi ed il Concorso Cerlogne. Quest’ultimo – ha ricordato Christiane Dunoyer, presidente del “Centre d’études francoprovençales René Willien” – fu fondato da persone lungimiranti, che riuscirono a contattare studiosi e professori universitari. Nacque come vero e proprio concorso letterario, con un’apposita giuria, e da due anni è tornato ad esserlo”.
Le esperienze vissute dagli insegnanti
Interessanti le esperienze vissute dalle insegnanti nelle piccole scuole di montagna nei primi anni del Concorso promosso dall’Effepi. Racconta Gabriella Stefano di Ronco: “Cominciammo nel 1981 con le favole, coinvolgendo le famiglie. Mi ricordo che aspettavano incuriosite il lunedì per farsi raccontare dai figli cos’avessero fatto a scuola”. Si rammarica di non poter più partecipare Marita Oberto, che insegnò a Ronco nel 1982-84 e che, in quel secondo anno, rifiutò persino il trasferimento nella sua Valle Sacra: “Non conoscevo il francoprovenzale e volli impararlo, anche se poi l’ho dimenticato. Quando arrivai a Castelnuovo Nigra riuscii a coinvolgere nel concorso gli amministratori, che poi apprezzarono tantissimo quest’iniziativa” . Illuminante il racconto della maestra pontese Cristina Coppo: “Nel 2002 mi assegnarono a Frassinetto: ero da sola, con 4 classi e 14 bambini. Arrivò la lettera d’invito ma avevo ben altri problemi da risolvere. Fu la bidella a farmi capire quale importanza avesse quel concorso per il paese: “Devi farlo!”. Finché sono rimasta a Frassinetto ho sempre partecipato ed ora ho ricominciato a farlo anche a Pont. Domenico Cabodi, esponente dell’Effepi ed insegnante elementare, ha ammesso. “Essendo uno di loro, capisco le difficoltà ad aderire. Trent’anni fa insegnavo in una pluriclasse con trenta allievi e decidevo io cosa fare; ora siamo in quattro e non sempre ci troviamo d’accordo sulle iniziative: il tempo a disposizione è quello che è”. L’architetto Piero Monteu Cotto, docente al Liceo Artistico “Faccio” di Castellamonte, ha portato esempi illuminanti sul coinvolgimento delle Scuole Superiori. Uno in positivo: “Nel ’95 con i miei allievi provvedemmo ad eseguire i rilievi della Torre Ferranda ed il Comune se ne servì poi per i restauri”. Uno in negativo, purtroppo recente: a Frassinetto, per l’inutile allargamento della strada, è stata demolita una cappella votiva con la scusa che era decrepita: grazie alla documentazione raccolta durante il lavoro di ricerca svolto nel 2000 insieme al professor Formia ed all’Istituto per Geometri di Cuorgnè abbiamo potuto dimostrare che non era così!”
Cosa significa difendere le lingue locali
Cercare di mantenere viva una lingua ormai parlata da frange minoritarie è un’operazione lungimirante o di retroguardia? Intorno a questa domanda-chiave ruotano alcune delle questioni fondamentali che la società contemporanea si trova ad affrontare: perché lo stesso quesito ci si pone da decenni riguardo la conservazione delle tradizioni e dei costumi locali, la salvaguardia dell’ambiente naturale e dei nuclei abitati così come si sono sedimentati nel tempo. In un mondo in costante e rapidissima trasformazione, l’accusa più frequente che ci si sente rivolgere è: “Volete fermare il progresso!” Gli interventi susseguitisi durante l’incontro dedicato dall’Effepi agli insegnanti hanno offerto spunti molto interessanti a questo riguardo. “Si dice che vogliamo tornare indietro – ha tuonato Bruno Tessa, uno degli esponenti più attivi e combattivi dell’associazione - No, vogliamo andare avanti ma per entrare nel Futuro è importante partire dal Passato. La subordinazione delle lingue locali e della cultura popolare nel Dopoguerra avevano una spiegazione: c’era bisogno di unificare l’Italia. Per farlo ci hanno però indotti a buttare via i dialetti così come i mobili di legno, le stoffe naturali, i prodotti tipici. Ci ritrovavamo con bambini che parlavano l’italiano avendo un vocabolario di trecento parole mentre quelli che erano rimasti legati al patois possedevano una ricchezza lessicale ben superiore. Allo stesso modo arrediamo le case con mobili di formica, siamo costretti a vestirci con filati decisi dal Potere; siamo ridotti a mangiare quattro varietà di mele: ce n’erano un centinaio per ogni paese. Siamo affetti da malattie che, a mio avviso, derivano anche dalle carenze di minerali: le coltivazioni di tipo industriale, basate sulla Quantità invece che sulla Qualità, impoveriscono il terreno e depauperano le piante”. Più specificamente dedicato al tema della lingua lo stimolante intervento di Christiane Dunoyer, presidente del “Centro Cerlogne”. “L’ideologia degli stati-nazione ha influenzato in profondità il giudizio sulle lingue: l’idea che non siano tutte sullo stesso piano è dura a morire, sebbene tutti i linguisti affermino il contrario. Sono dei codici atti a comunicare e conoscere un dialetto facilita l’apprendimento di tanti codici linguistici”. L’affermazione più interessante è però un’altra: “Le lingue locali non devono essere viste come quelle di chi vive su un territorio da undici generazioni ma come la lingua di tutti coloro che vengono a vivere lì. L’importante è non cristallizzarsi sulla differenza tra locuzione attiva e passiva: il modo migliore per impararle è sentirle parlare. Se si vuole fare qualcosa per una lingua occorre dunque parlarla”.
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