E’ ormai certo che Antonio Guainerio nacque a Pavia tra il 1380 e il 1390 da Giorgio, cittadino pavese. Risulta quindi senza fondamento l’affermazione che fosse nato a Chieri, come ebbe a scrivere Luigi Cibrario, in uno slancio di sincero ed ingenuo campanilismo, nelle sue “Storie di Chieri” (Tomo I, 1827). Un documento del 1417, contenuto nell’archivio comunale di Chieri, testimonia la concessione del permesso di abitarvi, nel quale viene indicato come “Magister Anthonius Vaynerius De Papia Physicus”. Sposato con Antonia dei Conti di Meda, alcuni dei figli sarebbero nati a Casale Monferrato, forse anche quel Teodoro che fu poi medico e consigliere del re di Francia Luigi XII. Nel gennaio 1412 ottiene a Pavia il dottorato in medicina e tre anni dopo esercita come medico comunale in Chieri fino al 1417. Nel gennaio del 1420 invece è al servizio dei Savoia come “Physicus Domini” per tre anni, poi ottiene un nuovo contratto biennale dal comune di Chieri con un salario di 50 fiorini sabaudi l’anno. Nel 1428 è docente all’università di medicina che da Torino era stata momentaneamente spostata in Chieri. Dedica due sue opere all’amico Antonio Magliani, medico personale di Amedeo VIII e diventerà lui stesso medico personale di Ludovico, figlio di Amedeo, a seguito del quale viaggerà attraverso il Piemonte raccogliendo, con curiosità e passione, notizie ed esperienze di carattere medico e naturalistico. Nel 1432, durante un viaggio a Thonon al seguito di Amedeo VIII, ebbe occasione di curare Giangiacomo Paleologo, Marchese di Monferrato, passando così al suo servizio. Per suo incarico studia le acque termali di Acqui, con le quali cura il Marchese, afflitto da gotta e calcoli. Alla fine del 1435 torna in Savoia (era già stato a Chambery nel 1423) prestando la sua opera in occasione della peste. Nel 1445, dopo la morte di Giangiacomo, torna a Torino alla corte di Ludovico, ora duca di Savoia e il 19 aprile 1447 è nuovamente incaricato medico comunale in Chieri con un salario annuo di 200 fiorini sabaudi. L’anno successivo torna a Pavia con uno stipendio annuo prima di 300 e poi di 325 fiorini, diventa membro del collegio dei medici e artisti della città, dedica due sue opere a Filippo Maria Visconti e protesta formalmente contro l’ammissione al collegio di un medico straniero. Si trova bene a Pavia, rifiutando un incarico dalla città di Bologna per 400 ducati. Muore intorno al 1455 e viene sepolto nella chiesa pavese di San Michele Maggiore. In questa intensa attività che Antonius Guainerius svolge in Piemonte, troviamo indicazioni e consigli che ci sorprendono, perché oltre ad essere tutt’ora attuali, hanno il sapore di vere e proprie invenzioni, oltre che consigli medici. Per esempio, nelle sue disquisizioni sulla cura dell’alimentazione, fondamentale abitudine allora come oggi, lo si scopre come dietista ante-litteram, quando suggerisce il condimento per le olive in salamoia: “Olive immature cum aqua, sale et feniculo condite”, cioè olive giovani, in semplice acqua, sale e finocchio selvatico: erba aromatica allora molto presente in Piemonte. Oppure le insalate di ortaggi crudi che, curiosamente, non erano molto diffuse nella nostra regione fino al 1300. I testi medici dell’epoca, anzi, ne sconsigliavano addirittura l’uso. Appariranno sulle mense medievali solo nel Quattrocento, quando cambierà anche il parere dei medici. Il Guainerio infatti, offre nel suo prezioso libro: “Opus preclarum ad praxim non mediocriter necessarium” molte ricette di insalate, segnalandone gli effetti depurativi e la funzione di risvegliare l’appetito. Su quest’ultimo punto il medico si sofferma più volte: una prima con la “Salsa Iudecorum” (Salsa dei Giudei), composta da zenzero, rosmarino, pane e aceto; poi una seconda quando parla del “Rafano”: “Radix raffani silvestris pistata cum aceto atque cum carnium brodium distemperata est sapor optimus, appetitum mortuum mirabiliter suscitans”. Il piemontese, ma l’abitudine è diffusa un po’ in tutta Italia, chiama “Rafano” la radice di “Barbaforte” o “Cren”, ed è la grossa e lunga radice della “Amoracia rusticana”, che cresce facilmente in tutta la regione. La salsa suggerita da Guainerio per le carni bollite non solo si affermò con decisione per secoli ma rimane tutt’ora, presso gli intenditori, una delle sette fondamentali salse per il “Gran Bollito Misto” dell’autunno e dell’inverno piemontese. Quando poi scrive: “Alleum est rusticorum sapor et aliquando cum molliicie panis coquunt, quod pro ultramontanis vel francigenis nihil supra”, diventa l’inconsapevole codificatore della “Bruschetta” italiana (Soma d’aj in Piemonte). Ancora durante il Rinascimento ferveva la polemica se il riso non fosse dannoso alla salute, tanto che il chivassese Gioanni Francesco Arma, fisico e medico del duca Emanuele Filiberto di Savoia, pubblicò a Torino, nel 1579, in lingua volgare un: “Discorso che il pane fatto col decotto del riso non sii sano”. Il Guainerio invece, più di un secolo prima, quando il riso era appena comparso nella pianura padana, consigliava: “Risum cum butyro coctum et zucharo aspersum” , per la digeribilità e l’alto valore nutritivo. Riconosce che le carni “più convenienti” sono capretti, lepri, caprioli, capponi, galline giovani, galletti, pernici e fagiani. Insiste nel buon consumo del vino suggerendo di non berne di tipo diverso in un solo pasto per evitare l’ubriachezza. Insomma un medico con cognizioni di regolatezza ben radicate in un periodo in cui eccedere, sulla mensa dei Signori, sembrava quasi un obbligo. E’ sufficiente citare Lionello D’Anversa, figlio terzogenito di Edoardo III d’Inghilterra, che, venuto ad Alba nel 1368 dopo aver sposato in seconde nozze Violante Visconti, non resse ad una scorpacciata di tartufi e vino: “Lo duca grande copia de trifole havendo manducato per modo di pane, volse con vini diversi donare refrigerio all’interiora hauntene un forte calore que lo addusse a trapasso”. Maistre Chiquart, capo cuoco di Amedeo VIII, nel 1420, ha lasciato un trattato gastronomico intitolato “Du fait de cuisine”, con ricette minuziosissime, al limite della pedanteria. Frequentemente questo Maistre Chiquart invitava il cuoco a consultare i medici Magliani e Guainerio nella preparazione dei piatti, testimonianza abbastanza evidente della preoccupazione che si nutriva a Corte sulla salute dei Signori rispetto alle responsabilità attribuite ai cucinieri. Magliani doveva essere più di manica larga quando approva il “Broet Blanc” a base di cappone con vino bianco e agresto, il “Buchat de Connins” a base di coniglio, “Les pastes nurriz”, una sorta di torta ripiena di carne di maiale e pollame cotta al forno e le lamprede arrosto, cotte invece nel vino speziato. Antonio Guainerio no, rimane parco e popolano come sempre, suggerendo i lupini, introdotti dai Romani ma poco diffusi in Piemonte, con semplice olio e sale; l’anguilla, la cui diffusione nel periodo medievale era notevole, lessata con prezzemolo, maggiorana, salvia, basilico, un po’ di pepe, zenzero, cianammomo e un pizzico di zafferano; oppure i ceci, in una sorta di zuppa, che ricorda molto la “Cisrà” astigiana e che si mangiava regolarmente, ancora durante tutto l’Ottocento, il giorno di Pentecoste. La sua “Zuppa di Ceci Rossi” si componeva di ceci, salvia, maggiorana, issopo, prezzemolo con olio d’oliva e la ritiene utile in particolare a chi soffre di fegato, ma, precisa il Guainerio, era anche apprezzata in modo particolare nelle campagne: “Vulgares vero de brodo cicerum rubeorum faciunt magnum festum”. Infine la “Geleia”, ossia la gelatina. Nel libro dei conti dei Savoia viene spesso chiamata “geleia” una preparazione culinaria in uso nel medioevo. Si ha traccia anche dell’acquisto di tessuto particolare per filtrarla: “ulne panni pro geleia facienda”. Guainerio afferma che la “geleia” era un “gelu cum acqua, aceto et vino facto”, cioè fatta con acqua, aceto e vino. Noi, oggi, in questa “geleia”, possiamo quasi riconoscere l’odierno “dado da gelatina”.
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