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14 Novembre 2014 - 10:04
alpine partisan
Il lavoro degli studenti
Il lavoro che gli studenti dell’allora Terza B hanno condotto non è stato un compito di routine: l’emozione è un sentimento che li ha accompagnati costantemente. Se traducendo la prima parte del libro di Milroy erano prevalsi in loro l’interesse e la curiosità “nel ripercorrere la storia del Canavese durante la Seconda Guerra Mondiale e nello scoprire le condizioni di vita misere di molti contadini”, il racconto della tragedia consumatasi tra le nevi del Galisia li ha commossi, dividendoli tra l’angoscia per quei terribili avvenimenti e l’ammirazione per i soccorritori che dapprima cercarono di portare in salvo i superstiti e poi, sei-sette mesi più tardi, s’impegnarono nella ricerca e nell’identificazione dei corpi rimasti intrappolati nella neve. Questo si ricava dai loro interventi durante la serata di presentazione del volume La traduzione si è rivelata ben più complessa del previsto: il gergo militaresco, le parole dialettali, le frasi a doppio senso spesso utilizzate da Southon erano difficili non solo da rendere in italiano ma anche da comprendere. Fondamentale è stato l’aiuto della docente incaricata del Lettorato in Lingua Inglese, Jill Davis, che la sua collega Coha ha ringraziato, spiegando come ella stessa abbia incontrato delle difficoltà e spesso “sia ricorsa all’aiuto di suo padre, avendo a che fare con modi di dire poi caduti in disuso”. E’ strano che questa testimonianza tanto importante non fosse mai stata resa accessibile ai lettori italiani. “Nei primi Anni Sessanta – ha spiegato il Bertotti – ne era stata fatta una traduzione parziale: venti o trenta pagine in tutto, quelle che descrivevano la tragedia del Galisia. In realtà il libro è poco noto anche in Gran Bretagna. Un primo motivo è dovuto alla sua pubblicazione all’interno di una collana di opere romanzate: se fosse stato edito come testo storico sarebbe invece arrivato nelle biblioteche e sarebbe stato conosciuto e citato dagli studiosi. Il secondo motivo è di natura psicologica: per vent’anni la propaganda reciproca aveva messo l’Italia e l’Inghilterra l’una contro l’altra ed ai britannici doveva parere poco realistico che i loro connazionali prigionieri fossero stati trattati decorosamente, messi a lavorare fianco a fianco con gli operai italiani (diventandone amici) e che, una volta fuggiti, avessero trovato accoglienza e protezione nelle case dei contadini”. Il lavoro compiuto ora dalla professoressa Coda ha portato all’acquisizione di dati inediti sui prigionieri presenti nel campo di Spineto: “Abbiamo ricevuto dall’Inghilterra la lista con i nomi dei cinquanta internati: l’impiegato del campo se l’era portata via al momento della fuga. Grazie a questi preziosi dati ed all’incrocio con le informazioni ottenute da coloro che conobbero ed ospitarono gli ex-prigionieri, siamo riusciti ad individuare, nei limiti del possibile i nomi dei morti. Metà di loro, qui in Canavese, un nome non lo avevano!”. LA TRAGEDIA DEL GALISIA. FATTI E POLEMICHE. La tragedia del Galisia, di cui ricorrerà nei prossimi giorni il settantesimo anniversario, rappresenta uno degli episodi più luttuosi e discussi della Lotta partigiana nel Canavese. Ha caratteristiche differenti rispetto agli altri eventi di allora: fu infatti insieme tragedia di guerra e di montagna, che vide perire nel gelo e nella tormenta, durante una traversata intrapresa e proseguita in condizioni ambientali impossibili, un numero di uomini che ancor oggi risulta imprecisato. Le valutazioni oscillano fra i trentasette ed i quarantuno; la lapide posta sul colle dice quaranta: venticinque inglesi e quindici partigiani. A tentare la traversata furono infatti un gruppo di ex-prigionieri inglesi (intenzionati a ricongiungersi con il proprio esercito nella Francia liberata) ed i partigiani che li accompagnavano, appartenenti ala VI Divisione di Giustizia e Libertà del comandante Bellandy. Partiti dal rifugio situato sul Colle dell’Agnel (Alta Valle dell’Orco) alle 10 del mattino dell’8 novembre 1944 - mentre la neve cadeva fitta e la visibilità era scarsa - dopo una salita indicibilmente lenta e dolorosa furono raggiunti dal buio prima di aver trovato il rifugio del Prariond, che li avrebbe potuti salvare: erano a pochi minuti di cammino ma l’edificio, sommerso dalla neve, non era visibile ad occhi inesperti. Dopo aver trascorso la notte all’addiaccio, il grosso della spedizione ripartì, lasciando indietro quattro uomini: due inglesi non più in grado di proseguire (Walter Rattue ed Alfred Southon) e due partigiani incaricati di assisterli: Giuseppe Mina e Carlo Diffurville. Sembravano destinati a morte certa, in attesa di soccorsi che non arrivarono mai. Dopo altri due giorni e due notti, Mina e Diffurville si misero in cammino per cercare a loro volta aiuto. Raggiunsero il rifugio prima di notte ed il giorno successivo li attendeva una terrificante scoperta: tutti i loro compagni erano morti assiderati. Vennero fortunosamente avvistati da altri tre partigiani (bloccati da giorni in Val d’Isère dov’erano giunti con Bellandy per rifornirsi di armi) ma nulla si poté fare per i due inglesi, essendo nel frattempo ripresa la tormenta. Rimasero per altre cinque notti sotto il roccione, esposti al vento ed alle tormente di neve, senza cibo né coperte: Rattue morì la penultima notte, Southon venne ritrovato –anche lui per puro caso, nessuno pensava potesse essere ancora in vita – la mattina del nono giorno. Di quaranta uomini ne rimanevano vivi tre: ma Giuseppe Mina sarebbe morto due anni più tardi senza essersi mai ripreso. Southon subì l’amputazione delle gambe e di tre dita della mano destra eppure, grazie ad una ferrea forza di volontà, riuscì a tornare ad una vita normale. L’unico a non riportare gravi conseguenza fu Carlo Diffurville, che nella tragedia aveva tuttavia perso un fratello. Sarebbe morto nel 1973, Southon vent’anni più tardi. Inevitabili le riflessioni, i giudizi, le polemiche su un fatto così grave, che è rimasto impresso con forza nella memoria collettiva. Anche nello studio pubblicato ora si è cercato di “ricostruire la vicenda, soppesare le variabili, vederne il gioco e l’interazione reciproca ma - concludono Coda e Bertotti - giunti alla fine, non ci sono più parole. La tragedia è stata elaborata, i morti sono stati sepolti, i loro nomi nel limite del possibile sono stati trovati. Ora vogliamo stare in silenzio . Onorarli. E lasciarli andare…”Edicola digitale
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