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Stiamo trasformando l’orbita terrestre in una discarica, la spazzatura spaziale rischia di bloccare il futuro

A Padova si studiano le collisioni nello spazio per capire come fermare una deriva invisibile ma pericolosa

Stiamo trasformando l’orbita terrestre in una discarica, la spazzatura spaziale rischia di bloccare il futuro

Stiamo trasformando l’orbita terrestre in una discarica, la spazzatura spaziale rischia di bloccare il futuro

Intorno alla Terra non c’è il vuoto che spesso immaginiamo. C’è una nuvola di detriti spaziali in continua espansione, fatta di frammenti invisibili a occhio nudo e di rottami grandi abbastanza da distruggere un satellite. Numeri alla mano, si parla di circa 150 milioni di frammenti fino a un centimetro, di 1,5 milioni di oggetti più grandi, fino a dieci centimetri, e di oltre 10mila tonnellate di materiale che orbitano attorno al pianeta. Una presenza silenziosa, ma tutt’altro che innocua, che rappresenta una delle principali sfide tecnologiche e scientifiche dei prossimi decenni.

È un’eredità accumulata in quasi 70 anni di attività spaziale. Dal primo lancio in orbita a oggi, l’umanità ha spedito nello spazio circa 20mila satelliti. Molti di questi non sono mai rientrati in atmosfera e continuano a viaggiare sopra le nostre teste, spesso fuori controllo. A questi si aggiungono i detriti prodotti da lanci falliti, da esplosioni accidentali e, soprattutto, da collisioni sempre più frequenti in un ambiente che sta diventando pericolosamente affollato.

Oggi orbitano intorno alla Terra quasi 12mila satelliti attivi, ma le stime indicano che nel giro di dieci anni questo numero potrebbe raddoppiare. Il boom delle costellazioni per telecomunicazioni, osservazione della Terra e servizi digitali sta trasformando lo spazio in una nuova frontiera industriale, senza che esista ancora una gestione realmente efficace del traffico orbitale. Il rischio è quello di un effetto domino: più oggetti significano più collisioni, e più collisioni producono nuovi frammenti, alimentando una spirale difficile da arrestare.

È su questo scenario che lavora l’Università di Padova, dove nel laboratorio di ipervelocità si studiano gli effetti degli impatti spaziali. Un luogo altamente specializzato, dotato di un dispositivo rarissimo. «Utilizziamo un acceleratore a gas leggero unico in Italia, ce ne sono solo altri due in Europa», spiega Lorenzo Olivieri, ricercatore di ingegneria industriale. «Questo strumento ci permette di simulare impatti iperveloci comparabili a quelli che avvengono nello spazio».

Nel vuoto orbitale, infatti, anche un frammento di pochi millimetri può viaggiare a velocità superiori ai 7-8 chilometri al secondo. A quelle condizioni, l’energia sprigionata da un impatto è devastante. Un minuscolo detrito può perforare un pannello solare, danneggiare strumenti di bordo o compromettere irreversibilmente un satellite dal valore di centinaia di milioni di euro.

I ricercatori padovani analizzano nel dettaglio come si frammentano i satelliti, quali componenti cedono per primi, come si propagano le fratture e quali materiali resistono meglio. L’obiettivo non è solo descrivere il problema, ma trovare soluzioni. Vengono studiati scudi protettivi progettati ad hoc, capaci di assorbire o deviare l’energia degli impatti, riducendo il rischio di distruzione totale.

I test di distruzione controllata offrono dati impressionanti. Un singolo oggetto spaziale di appena 5 centimetri cubi, se colpito a velocità iperveloci, può generare oltre 3.000 frammenti. Ognuno di questi diventa a sua volta un potenziale proiettile, capace di innescare nuove collisioni. È questa la dinamica che più preoccupa gli scienziati: una crescita esponenziale dei detriti che potrebbe rendere alcune orbite inutilizzabili per decenni.

La questione non è astratta. I satelliti sono ormai infrastrutture essenziali. Regolano navigazione GPS, comunicazioni, previsioni meteo, monitoraggio climatico, sicurezza e difesa. Un aumento incontrollato della spazzatura spaziale potrebbe tradursi in blackout dei servizi, ritardi nelle missioni e costi enormi per governi e aziende private.

In questo contesto, lo spazio somiglia sempre meno a un ambiente infinito e sempre più a una risorsa fragile, che richiede regole e interventi mirati. Gli studi condotti a Padova contribuiscono a costruire una base scientifica per decisioni future, sia sul piano tecnologico sia su quello normativo. Capire come si generano i detriti e come si comportano dopo una collisione è fondamentale per progettare satelliti più resilienti e strategie di mitigazione più efficaci.

La ricerca si muove quindi su un doppio binario. Da un lato la prevenzione, attraverso materiali più resistenti e architetture satellitari pensate per ridurre la frammentazione. Dall’altro la gestione del rischio, che include il tracciamento dei detriti, le manovre evasive e, in prospettiva, la rimozione attiva dei rottami più pericolosi.

Il tempo, però, non gioca a favore. Con il numero di satelliti destinato a crescere rapidamente, ogni ritardo aumenta la probabilità di incidenti gravi. La spazzatura spaziale non è più un problema del futuro: è una realtà presente, che si muove a migliaia di chilometri orari sopra le nostre teste.

E mentre l’umanità continua a guardare allo spazio come a una nuova frontiera economica e tecnologica, nei laboratori come quello dell’Università di Padova si lavora per evitare che questa corsa finisca per trasformare le orbite terrestri in un campo minato invisibile.

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