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Lo Stato compra le scorie nucleari, Stellantis incassa, Elkann ride e i cittadini restano "fregati"

Via libera del Consiglio dei ministri all’acquisizione di Deposito Avogadro da parte di Sogin: un’operazione da milioni di euro che libera Stellantis da un sito nucleare fragile e a rischio ambientale, mentre il Governo prepara il ritorno dell’atomo scaricando costi e pericoli sui cittadini

Lo Stato compra le scorie nucleari, Stellantis incassa, Elkann ride e i cittadini restano "fregati"

Lo Stato compra le scorie nucleari, Stellantis incassa, Elkann ride e i cittadini restano "fregati"

Qui non siamo davanti a una semplice operazione industriale. Qui siamo davanti a una scelta politica precisa, a un passaggio che racconta molto più di mille dichiarazioni sull’energia “pulita”, sulla transizione ecologica e sulla sicurezza energetica. E lo racconta nel modo più brutale possibile: con i soldi pubblici.

Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi nella serata di lunedì, ha autorizzato Sogin ad acquisire il 100 per cento di Deposito Avogadro, società finora controllata da Stellantis tramite Fca Partecipazioni. Una decisione formalmente tecnica, ma politicamente chiarissima. Perché qui non si tratta solo di un passaggio di proprietà: si tratta di stabilire chi paga, chi incassa e chi si prende i rischi.

La proposta porta la firma del ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin e di quello dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Il Governo approva senza battere ciglio e chiude il cerchio: lo Stato compra, il privato incassa, il territorio resta esposto. Una dinamica già vista, ma che nel caso del nucleare assume un peso specifico ben diverso.

Ufficialmente è un’operazione “strategica”, inserita nel più ampio disegno di rafforzamento del decommissioning nucleare. Nella sostanza, però, è un’uscita di sicurezza dorata per Stellantis, che si libera di un asset scomodo, potenzialmente pericoloso e politicamente ingestibile, lasciando il cerino acceso nelle mani pubbliche. Un’operazione che assomiglia molto più a un salvataggio mascherato che a una scelta nell’interesse collettivo.

Deposito Avogadro non è un capannone qualunque. È un frammento ingombrante della storia industriale italiana, quando la Fiat non si limitava a produrre automobili ma inseguiva il sogno dell’atomo come simbolo di progresso e modernità. Alla fine degli anni Cinquanta, al Lingotto, si puntava alla diversificazione, alla ricerca avanzata, all’idea di giocare un ruolo anche nel nascente settore nucleare. Un’Italia che guardava al futuro con entusiasmo tecnologico, senza interrogarsi troppo sui costi a lungo termine.

Quel sogno si è spento presto, molto prima delle centrali. Le scorie, invece, sono rimaste. E continuano a essere il problema irrisolto di un Paese che ha detto no al nucleare con due referendum, ma non ha mai davvero chiuso i conti con ciò che il nucleare ha lasciato.

Il sito di Saluggia, in provincia di Vercelli, ospita l’ex reattore sperimentale Avogadro RS-1, spento nel lontano 1971. Da allora l’impianto non è mai diventato davvero “ex”. Al contrario, nel corso dei decenni è stato trasformato in uno snodo centrale per lo stoccaggio e lo smistamento dei rifiuti radioattivi italiani, un luogo dove si concentrano materiali prodotti da vecchie centrali, attività di ricerca e riprocessamenti, con livelli di complessità e rischio che richiedono una gestione costante e costosa.

Ed è qui che la narrazione governativa comincia a scricchiolare. Perché prima ancora di parlare di nuovo nucleare, di reattori di quarta generazione, di mini-reattori e di futuro energetico, bisognerebbe risolvere in modo definitivo e sicuro l’eredità radioattiva del passato. Invece accade l’opposto: si rafforza un sito già problematico, lo si rende strutturalmente centrale, lo si consolida come polo di raccolta. E lo si fa acquistandolo da un soggetto privato che, nel frattempo, può finalmente archiviare un dossier scomodo.

avogadro

Il prezzo dell’operazione non è stato ufficializzato, ma i numeri sono tutt’altro che misteriosi. Dal bilancio 2024 di Deposito Avogadro emerge un fatturato di circa 3,9 milioni di euro, con un utile vicino agli 800 mila euro. Il patrimonio netto supera i 6,7 milioni, mentre la posizione finanziaria netta è positiva per oltre 18 milioni di euro, frutto della gestione della liquidità interna alla galassia Stellantis. Le cifre che circolano parlano di circa 15 milioni di euro per l’acquisizione.

Per il gruppo automobilistico, è un’uscita ordinata, pulita e redditizia da un investimento diventato sempre più difficile da giustificare sul piano industriale e reputazionale. Per lo Stato, è l’assunzione diretta di un problema complesso, costoso e potenzialmente esplosivo sul piano ambientale e politico.

Non è un caso che da tempo Alleanza Verdi e Sinistra denunci questa operazione. Marco Grimaldi, deputato AVS, e Alice Ravinale, capogruppo in Consiglio regionale del Piemonte, hanno annunciato interrogazioni parlamentari e regionali parlando apertamente di una scelta inaccettabile.

«Il sito Avogadro di Saluggia è fragile, vetusto e a rischio ambientale e idrogeologico. Eppure Sogin vuole acquistarlo a titolo definitivo per 15 milioni di euro. Un’operazione che trasformerebbe un deposito temporaneo in un punto di raccolta permanente per le scorie nucleari italiane, comprese quelle che torneranno dall’estero dopo il riprocessamento. È inaccettabile», attaccano.

E i dati territoriali rendono queste parole tutt’altro che ideologiche. Il sito si trova a 700 metri dalla Dora Baltea e a 1.400 metri dai pozzi dell’acquedotto del Monferrato. Non lo sostengono comitati improvvisati, ma Arpa, Isin e persino il Piano regolatore del Comune di Saluggia, che chiede esplicitamente la completa denuclearizzazione dell’area. Atti ufficiali, valutazioni tecniche, documenti pubblici. Tutto noto. Tutto ignorato.

Del resto, che l’operazione fosse già scritta lo dimostrano gli stessi documenti societari. Nel bilancio 2024 di Sogin si legge nero su bianco che erano in corso trattative per l’acquisizione del sito dall’attuale proprietario, Stellantis. Tradotto: il Governo sapeva, il Governo sa, e il Governo va avanti comunque. Senza un vero confronto pubblico, senza una discussione trasparente sui rischi, senza una scelta condivisa con i territori coinvolti.

La domanda, a questo punto, è fin troppo semplice: perché lo Stato deve pagare per liberare un colosso privato da un’eredità industriale che lui stesso ha contribuito a creare? E perché questa scelta viene presentata come inevitabile, quasi naturale, quando in realtà è profondamente politica?

La risposta sta nella strategia energetica dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, che ha deciso di riaprire la porta al nucleare, superando nei fatti l’esito dei referendum e riducendo il dibattito pubblico a una questione tecnica. Il decommissioning diventa così il cavallo di Troia: prima si centralizzano le scorie, poi si normalizza l’idea dell’atomo, infine si prepara il terreno per il ritorno del nucleare nel mix energetico nazionale.

Nel frattempo, però, Saluggia resta lì, con il suo carico di rischi, in un’area già fragile dal punto di vista ambientale e idrogeologico. E la Regione Piemonte, almeno finora, sembra limitarsi a osservare. Nessuna presa di posizione netta, nessuna opposizione frontale. Come se trasformare un territorio in un deposito permanente di scorie fosse un dettaglio amministrativo.

Insomma, dietro la retorica della sicurezza energetica, della competitività e della decarbonizzazione, emerge un fatto semplice e brutale: Stellantis incassa, lo Stato paga, i cittadini rischiano. Altro che transizione. Questa è nazionalizzazione del rischio e privatizzazione degli utili. E Saluggia, ancora una volta, rischia di diventare il simbolo di un Paese che chiama “strategia” ciò che assomiglia molto a un regalo.
Un regalo radioattivo.

Nucleare: il ritorno...

C’è una parola che in Italia viene evocata solo quando fa comodo e rimossa con cura quando diventa scomoda: referendum. Sul nucleare, più che altrove, questa rimozione è diventata un metodo di governo. Non un inciampo, non una dimenticanza. Una scelta politica deliberata.

Nel 1987, all’indomani di Chernobyl, milioni di cittadini italiani votarono per dire no al nucleare. Non fu una consultazione marginale, né un voto emotivo: fu una presa di posizione netta, figlia di una paura fondata e di una riflessione collettiva su rischi, costi e responsabilità. Quel voto smantellò il programma nucleare italiano e segnò una direzione chiara. Una direzione che la politica, allora, fu costretta a rispettare.

Nel 2011, dopo Fukushima, gli italiani tornarono alle urne. E dissero di nuovo no. Un no ancora più forte, ancora più consapevole, espresso in un contesto globale che aveva mostrato come l’“incidente impossibile” fosse, in realtà, sempre possibile. Due referendum. Due no. Due mandati popolari inequivocabili.

Eppure oggi il nucleare rientra dalla finestra, con passo felpato e linguaggio tecnico. Non più come scelta politica, ma come “necessità energetica”. Non più come progetto, ma come “gestione dell’esistente”. Non più come rottura, ma come continuità. È così che si tradisce un referendum: non lo si nega, lo si svuota.

Il caso di Saluggia e dell’acquisizione di Deposito Avogadro da parte di Sogin, autorizzata dal governo su proposta dei ministri Gilberto Pichetto Fratin e Giancarlo Giorgetti, è emblematico. Formalmente si parla di decommissioning, di messa in sicurezza, di razionalizzazione. Politicamente, si sta facendo un’altra cosa: si costruisce l’infrastruttura del ritorno al nucleare senza mai nominarlo davvero.

Prima si centralizzano le scorie. Poi si normalizza la loro presenza. Poi si racconta che, a questo punto, tanto vale guardare avanti. È una strategia graduale, chirurgica, che evita accuratamente il terreno del confronto democratico. Perché su quel terreno il Governo sa di perdere.

Nessuno, oggi, ha il coraggio di dire apertamente: “Vogliamo cancellare l’esito dei referendum”. Sarebbe politicamente esplosivo. Molto più comodo è dire che i referendum riguardavano “un altro nucleare”, “un’altra epoca”, “altre tecnologie”. Come se il problema fossero solo i reattori e non la filiera, le scorie, i territori sacrificati, i costi pubblicie i rischi permanenti.

Il punto, infatti, non è solo se il nucleare di oggi sia diverso da quello di ieri. Il punto è che la volontà popolare non viene superata con un comunicato stampa né con un bilancio societario. Se si ritiene che il Paese debba cambiare strada, lo si dica apertamente. E si torni alle urne. Tutto il resto è aggiramento.

Invece si procede per atti amministrativi, per delibere, per acquisizioni “tecniche”. Si compra un deposito qui, si rafforza un sito là, si parla di sicurezza energetica come se fosse un destino ineluttabile e non una scelta. Il referendum viene trattato come un fastidio d’archivio, un pezzo di carta ingiallita buono per le celebrazioni retoriche e inutile quando intralcia le strategie industriali.

Il paradosso è che proprio il decommissioning, nato per chiudere la stagione nucleare, diventa oggi il suo grimaldello. Si dice: dobbiamo gestire le scorie, quindi servono siti, quindi servono strutture stabili, quindi servono investimenti. E a forza di “quindi”, ci si ritrova con un sistema pronto ad accogliere anche altro. Magari non oggi. Ma domani sì.

E i territori? I territori diventano una variabile secondaria. Saluggia, con il suo sito a poche centinaia di metri dalla Dora Baltea e dai pozzi dell’acquedotto del Monferrato, è l’esempio perfetto. Tutti sanno. Tutti hanno letto i pareri di Arpa, Isin, il Piano regolatore comunale. Tutti sanno che si tratta di un’area fragile, esposta, delicata. Eppure si va avanti. Perché quando la politica decide che un referendum è superato, anche la geografia diventa un dettaglio.

Il tradimento dei referendum non è solo una questione giuridica. È una questione democratica. È l’idea, sempre più radicata, che alcune decisioni siano “troppo complesse” per i cittadini e debbano essere gestite altrove: nei ministeri, nei consigli di amministrazione, nei tavoli tecnici. Al popolo resta il compito di pagare e di convivere con le conseguenze.

Ma i referendum sul nucleare non erano slogan. Erano esattamente questo: una risposta collettiva a una complessità reale. Erano la presa d’atto che certe scelte non possono essere corrette in corsa senza chiedere di nuovo il permesso. Ignorarli oggi significa dire che il voto vale solo quando non disturba.

E allora la domanda non è se il nucleare tornerà. La domanda è che fine ha fatto la sovranità popolare. Perché se due referendum possono essere aggirati senza nemmeno il pudore di una discussione pubblica, allora il problema non è l’atomo. È la democrazia ridotta a orpello.

Il nucleare, in Italia, non è mai tornato davvero. È rimasto sottotraccia, come una corrente carsica. Oggi riaffiora non perché gli italiani abbiano cambiato idea, ma perché chi governa ha deciso che quell’idea non conta più. E questo, più delle scorie, è il lascito più tossico di tutta la vicenda.

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