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04 Settembre 2025 - 11:51
Nella foto: Alberto Deambrogio e John Elkann
La notizia arriva silenziosa ma pesa come un macigno: Sogin, la società pubblica che dovrebbe occuparsi di smantellare il nucleare italiano, si prepara a comprare la Avogadro S.p.A. e con essa il famigerato deposito di Saluggia. A dirlo è Alberto Deambrogio, segretario regionale di Rifondazione Comunista, che parla senza mezzi termini di una vicenda “allarmante”. Ed è difficile dargli torto. Perché quello di Saluggia non è un deposito qualsiasi, ma il magazzino più discusso e pericoloso del Paese, piazzato a due passi dalla Dora Baltea e sopra una falda acquifera che alimenta l’acquedotto del Monferrato. Una collocazione talmente assurda che da decenni viene definita “inidonea” perfino nei documenti ufficiali.
Finora la proprietà era in mano a Deposito Avogadro S.r.l., controllata dal gruppo legato agli Elkann, eredi della galassia Fiat. Per anni si sono goduti l’affitto pagato da Sogin, che nel frattempo gestiva le scorie. Adesso però, come si legge nel bilancio 2024 di Sogin, la famiglia più chiacchierata e potente d'Italia ha deciso di mollare il colpo: vende l’intero pacchetto e incassa. Deambrogio la mette giù chiara: «Con la cessione la famiglia Elkann rinuncia a una monetizzazione di lungo periodo garantita dall’affitto, ma si libera di un asset problematico, che in ogni caso porta loro risorse da investire in settori più strategici». In altre parole: loro fanno cassa, lo Stato si prende la bomba.
Ed è qui che la faccenda diventa esplosiva, non solo in senso metaforico. Perché l’operazione lascia intravedere un futuro molto meno rassicurante di quello che le rassicurazioni ufficiali vorrebbero dipingere. Il sospetto, anzi quasi la certezza, è che il deposito Avogadro, una volta in mano a Sogin, diventi il punto di raccolta non solo delle scorie già presenti, ma anche di quelle che oggi stanno in Gran Bretagna e in Francia, in attesa di tornare in Italia dopo il riprocessamento. Il Paese che nel 1987 disse addio al nucleare con un referendum rischia così di ritrovarsi nel 2025 con Saluggia trasformata in pattumiera nazionale ad alta radioattività.
E non è che manchino i campanelli d’allarme. Lo sanno bene gli abitanti di Saluggia, che nel 2000, con l'alluvione, hanno visto l’acqua "entrare" gli impianti nucleari della zona. Lo scrivono nero su bianco l’Arpa Piemonte e l’ISIN, che parlano da anni di un sito fragile, vetusto, circondato da rischi ambientali e idrogeologici. Lo ammettono perfino gli stessi piani regolatori locali, che parlano di “denuclearizzazione” come unico futuro possibile. Ma intanto, invece di svuotarlo, lo Stato si prepara a comprarlo.
Deambrogio non la manda a dire: «Questo passaggio è davvero cruciale e molto problematico. La scelta dell’acquisto del deposito Avogadro pare proprio testimoniare la volontà di un suo utilizzo per il complesso delle scorie ad alta attività». Tradotto: altro che bonifica e dismissione, qui si rischia di consolidare la vocazione nucleare del sito. Con un paradosso: tutti riconoscono che è il posto peggiore dove tenere scorie radioattive, ma nessuno muove un dito per chiuderlo. Anzi, lo si compra.
Resta la domanda delle domande: chi ci guadagna e chi ci perde? Gli Elkann, che con un colpo di penna si tolgono di dosso una mina vagante e intascano liquidità, di certo non ci rimettono. Lo Stato, e quindi i cittadini, si prendono la responsabilità politica, economica e soprattutto ambientale di una bomba atomica sotto forma di barili e contenitori. Gli abitanti del Vercellese e del Canavese si ritrovano ancora una volta a vivere accanto a un sito che doveva essere temporaneo e che rischia di diventare eterno.
«Bisogna fare chiarezza al più presto, anche perché la nuova proprietà non sarà certo in grado di modificare l’assoluta inidoneità di quel luogo» conclude Deambrogio.
Già, chiarezza. Una parola che in questa vicenda sembra bandita. Perché la verità è che Saluggia continua a essere trattata come il retrobottega radioattivo della Repubblica. E intanto la bomba a orologeria resta lì, pronta a ricordarci, alla prossima piena della Dora o al prossimo ritardo politico, quanto costi davvero non avere mai fatto i conti con il nucleare italiano.
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