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Cronaca

Scontri a Torino dopo lo sgombero di Askatasuna: idranti e lacrimogeni al corteo

Tensione tra antagonisti e polizia: bottiglie e oggetti contro il cordone, cariche e manganellate in risposta

Scontri a Torino dopo lo sgombero di Askatasuna: idranti e lacrimogeni al corteo

Scontri a Torino dopo lo sgombero di Askatasuna: idranti e lacrimogeni al corteo

Cantano “libertà” e cantano “Free Palestina”. È da lì che tutto comincia - urlano dal megafono -  da una presa di posizione netta contro il genocidio a Gaza, da una parola che non vuole essere neutra e che pretende di essere detta ad alta voce. Avanzano lentamente, come in ogni corteo che nasce con un’idea semplice e radicale insieme: il diritto a dissentire. Le voci si intrecciano contro il fascismo, contro lo sionismo, contro il trumpismo, contro il melanismo. Parole dure, slogan netti, ma nessuna arma, nessuna corsa, nessuna tensione apparente. È un fiume umano che attraversa Torino, migliaia di persone, unite da una richiesta che suona antica e sempre attuale: poter dire no.

Ci sono famiglie con bambini, passeggini spinti con calma, anziani, studenti, uomini e donne con disabilità, corpi fragili e corpi giovani che camminano insieme. Tutti lì. Tutti dentro lo stesso spazio pubblico. Si urla Askatasuna siamo tutti noi, come se quel nome non fosse solo un edificio sgomberato, ma qualcosa di più grande: un simbolo, un’idea di città e di libertà che non vuole essere cancellata con un’ordinanza.

askatasuna

Il corteo è pacifico. Sotto ogni punto di vista. Le bandiere sventolano, le mani sono alzate, le parole rimbalzano tra i palazzi. Nessuno corre. Nessuno spinge. Nessuno cerca lo scontro. La piazza è attraversata da una determinazione calma, ostinata, che non ha bisogno di gesti eclatanti per farsi vedere.

Poi, all’improvviso, il muro.

Davanti al corteo compare il cordone della polizia, schierato a impedire il passaggio. Una linea netta, rigida, che taglia la strada e spezza il flusso. La manifestazione si ferma. Le voci continuano, ma qualcosa cambia nell’aria. La tensione sale lentamente, come quando si capisce che il punto di non ritorno è vicino, anche se nessuno lo ha ancora detto ad alta voce.

E poi arriva l’acqua.

Gli idranti entrano in azione. Subito dopo i lacrimogeni. Il corteo pacifico si frantuma. In testa alla manifestazione un gruppo di persone incappucciate tenta di forzare il blocco, lanciando bottiglie e oggetti contro le forze dell’ordine. La risposta è dura, immediata. Le cariche partono, i manganelli si abbassano, le persone arretrano, urlano, scappano. Qualcuno cade.

Volano bombe carta, esplodono sull’asfalto nel tentativo di sfondare il cordone delle forze dell’ordine, posizionato a circa 500 metri dalla palazzina di Askatasuna, quella stessa palazzina che poche ore prima è stata sgomberata e che ora diventa il centro simbolico di uno scontro più grande. Bastonate da una parte, manganellate dall’altra. Il rumore copre tutto: sirene, scoppi, grida.

In pochi minuti, quella che era una manifestazione attraversata da bambini, anziani e studenti diventa un campo di battaglia urbano. Le famiglie si disperdono, i più fragili cercano riparo, il corteo perde il suo volto iniziale. Restano il fumo, l’acqua sull’asfalto, gli slogan spezzati, la sensazione che qualcosa si sia rotto.

Torino assiste ancora una volta a una scena che si ripete: una piazza che chiede di essere ascoltata e uno Stato che risponde con scudi, idranti e lacrimogeni. Una frattura che non nasce negli scontri, ma molto prima. Negli sgomberi, nei divieti, nelle linee tracciate a terra come confini invalicabili.

Insomma, quella di Torino non è solo la cronaca di un pomeriggio di tensione. È il racconto di una città che, davanti a un corteo pacifico, si ritrova improvvisamente a fare i conti con il rumore secco dei manganelli e con una domanda che resta sospesa nell’aria, insieme al fumo: quanto spazio è rimasto, oggi, per il dissenso?

A me...

A me, quando vedo scene così, viene in mente Braveheart, vengono in mente gli indiani d’America, vengono in mente i partigiani, la lotta di resistenza. Vengono in mente popoli che hanno alzato la testa quando abbassarla sarebbe stato più comodo, uomini e donne che hanno scelto di stare dalla parte sbagliata della storia pur di non tradire se stessi. Vengono in mente i volti sporchi di fango, le mani nude contro il ferro, la consapevolezza che perdere è possibile, ma arrendersi no.

Perché, guardando quelle immagini, io vedo questo: una comunità che non accetta di essere spazzata via, che non vuole essere ridotta a silenzio, che reclama spazio, parola, diritto di esistere. Vedo famiglie, studenti, anziani, persone fragili che non stanno chiedendo privilegi, ma riconoscimento. Vedo una piazza che dice “ci siamo” prima ancora di dire “abbiamo ragione”.

E invece no.
A una parte del mondo che guarda viene in mente altro.

Viene in mente il frame già pronto, il titolo scritto prima ancora che accada qualcosa. Viene in mente la parola “violenti”, “antagonisti”, “teppisti”. Viene in mente il solito racconto rassicurante, quello che divide il mondo in buoni in divisa e cattivi incappucciati, senza mai fermarsi a chiedere perché quelle persone sono lì, da dove nasce quella rabbia, che cosa è stato tolto prima ancora che qualcuno lanciasse una bottiglia.

A una parte del mondo che guarda non vengono in mente i partigiani. Vengono in mente solo i disordini.

Non vengono in mente i nativi americani cacciati dalle loro terre. Vengono in mente le vetrine rotte.

Non viene in mente Braveheart che urla “libertà” davanti a un esercito più grande. Vengono in mente i lacrimogeni come unica risposta possibile.

E allora la storia si rovescia. Chi resiste diventa un problema di ordine pubblico. Chi chiede spazio diventa una minaccia. Chi urla “libertà”, "free palestina", "genocidio" viene sommerso dall’acqua degli idranti, come se bastasse bagnare l’asfalto per spegnere un’idea.

Il punto è tutto qui: non tutti guardano le stesse immagini con gli stessi occhi. C’è chi vede una piazza che prova a difendere un'idea, e chi vede solo un fastidio da rimuovere. C’è chi riconosce nella disobbedienza una tradizione storica, e chi la considera automaticamente un crimine. C’è chi sa che ogni diritto, prima di essere legge, è stato conflitto.

E forse è proprio questo lo scarto più profondo. Non tra chi stava in piazza e chi no. Ma tra chi, davanti a quelle immagini, riconosce una storia di resistenza e chi preferisce archiviarle come l’ennesimo problema da sedare.

Perché la libertà, a ben guardare, non è mai ordinata. Non marcia in fila indiana, non chiede permesso, non si ferma davanti a un cordone. E ogni volta che qualcuno prova a raccontarla come semplice “disordine”, sta solo scegliendo da che parte della storia vuole stare.

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