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18 Dicembre 2025 - 14:21
Il Pd accende la miccia: “Dopo Askatasuna, ora lo sgombero tocca a Casapound”
La legalità, quando diventa selettiva, smette di essere un principio e si trasforma in un’arma politica. È su questo terreno che il Partito democratico decide di affondare il colpo all’indomani dello sgombero di Askatasuna a Torino, chiedendo conto al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di un’assenza che pesa come un macigno: CasaPound a Roma è ancora lì, dopo oltre vent’anni di occupazione abusiva di un immobile pubblico nel cuore della capitale.
La domanda, posta senza giri di parole dal responsabile sicurezza del Pd Matteo Mauri, è brutale nella sua semplicità: se lo Stato interviene con rapidità e determinazione contro un centro sociale di area anarchica, perché non fa lo stesso con uno storico presidio dell’estrema destra neofascista?. È qui che il tema della sicurezza si intreccia con quello dei doppi standard, denunciati apertamente dai dem.
A Torino, la giornata di oggi segna uno spartiacque. Askatasuna, occupato dal 1996 in corso Regina Margherita 47, è stato sgomberato e sequestrato all’alba dalla Digos, nell’ambito dell’inchiesta sugli assalti a La Stampa, alle Ogr e alla sede Leonardo, avvenuti durante i cortei pro Palestina. Un’operazione di polizia giudiziaria che ha portato ai sigilli dello stabile e alla fine, almeno formale, di una delle occupazioni più longeve della città.
Lo sgombero ha avuto anche un effetto politico immediato: è decaduto il patto di collaborazione avviato dal Comune con il comitato di garanti per una gestione “legalizzata” del piano terra dell’edificio come bene comune. Il sindaco Stefano Lo Russo lo ha detto senza ambiguità: «È stata violata un’ordinanza, automaticamente il patto è decaduto». E ancora: le operazioni si sono svolte «nelle forme e nei modi previsti dalla legge».

Matteo Mauri
Askatasuna, per quasi trent’anni, è stato un simbolo dell’autonomia antagonista torinese: iniziative politiche, sociali, mutualismo, ma anche scontri durissimi con le istituzioni, cortei degenerati, tensioni croniche con le forze dell’ordine. Negli ultimi mesi, però, il suo nome è tornato al centro della cronaca giudiziaria per atti violenti che hanno superato ogni linea di ambiguità politica. Da qui lo sgombero, salutato con entusiasmo dalla destra e rivendicato come “ritorno dello Stato”.
Ed è proprio qui che il confronto diventa esplosivo. Perché mentre Askatasuna viene chiuso con un’operazione all’alba, CasaPound Italia continua a occupare indisturbata Palazzo di via Napoleone III, a due passi dalla stazione Termini. Un immobile pubblico, proprietà dello Stato, occupato illegalmente dal 2003. Ventidue anni. Nessuno sgombero. Nessun sequestro. Nessuna urgenza.
CasaPound non è un centro sociale qualsiasi. È un’organizzazione neofascista, che rivendica apertamente l’eredità del fascismo, utilizza simbologie del Ventennio, ha costruito una rete politica, culturale e militante che negli anni ha prodotto episodi di violenza, aggressioni, condanne penali e un’ideologia incompatibile con i principi costituzionali. Eppure, quello stabile resta lì, come una zona franca nel cuore della capitale.
Nel tempo si sono susseguiti governi di ogni colore, promesse di sgombero, annunci mai seguiti dai fatti. Oggi, con un esecutivo guidato da Giorgia Meloni, cresciuta politicamente nello stesso ambiente della destra post-missina, quella inerzia assume un significato ancora più politico.
È questo il punto sollevato dal Pd: la legge non può valere a geometria variabile. Se l’occupazione abusiva è un reato, lo è sempre. Se lo sgombero è necessario per ristabilire la legalità, non può dipendere dal colore politico degli occupanti. Altrimenti il messaggio è devastante: lo Stato colpisce duro a sinistra e chiude un occhio a destra.
La maggioranza applaude lo sgombero di Askatasuna come una vittoria dell’ordine. Ma su CasaPound, silenzio. Nessuna dichiarazione, nessuna accelerazione, nessuna operazione all’alba. Un silenzio che, secondo il Pd, tradisce un’idea selettiva di legalità, dove alcune illegalità sono tollerate perché “amiche”, altre represse perché “nemiche”.
Il confronto Askatasuna–CasaPound non è una gara a chi è peggio. È una questione di credibilità dello Stato. Perché quando la legalità diventa uno strumento politico e non un principio uguale per tutti, il rischio è quello di alimentare sfiducia, radicalizzazione e conflitto.
Torino oggi ha visto lo Stato intervenire con decisione. Roma, da vent’anni, vede lo Stato voltarsi dall’altra parte. Finché questo squilibrio resterà irrisolto, ogni discorso su sicurezza, ordine e rispetto delle regole resterà monco. E la domanda del Pd continuerà a rimbalzare come un’accusa difficile da ignorare: perché Askatasuna sì e CasaPound no?
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