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11 Dicembre 2025 - 11:02
I bambini del Sud Italia sono condannati dalla nascita e facciamo tutti finta che sia normale
In Italia nascere in una città del Sud o in una città del Nord significa, ancora oggi, avere davanti prospettive profondamente diverse. Non è una formula astratta: i numeri del rapporto “Giovani e periferie”, promosso da Con i Bambini e Openpolis, rendono evidente quanto la geografia continui a determinare il destino educativo ed economico dei minori. A Catania il 6,2% delle famiglie con figli vive in condizioni di potenziale disagio economico; a Napoli il 6%, a Palermo il 5,8%. Sono nuclei con figli a carico in cui la persona di riferimento ha meno di 65 anni e nessuno dei componenti è occupato o pensionato. Una condizione che, nelle città del Nord, appare quattro volte meno diffusa: Bologna si ferma all’1,2%, Venezia e Genova all’1,3%, Milano e Firenze all’1,4%. Basta questo primo confronto per capire la distanza.
Ma il divario non corre solo lungo la linea ideale che separa Nord e Sud: corre dentro le città. A Catania, dove la media cittadina è del 6,2%, ci sono zone che scendono al 3,1% e altre che salgono al 9,3%. A Napoli si passa dal 3% del Vomero al 9,2% di San Pietro a Patierno. A Cagliari, una città spesso percepita come equilibrata, il tasso di abbandono scolastico precoce varia dal 16,3% fino a superare il 25% nei quartieri più fragili, mentre in zone più agiate scende sotto il 10%. Dentro la stessa comunità convivono mondi diversi: scuole con solide reti di supporto e altre dove la dispersione scolastica è un fenomeno quotidiano; famiglie che investono sull’istruzione e altre che lottano per la sopravvivenza economica.
I bambini e gli adolescenti sono la fascia d’età che più risente di queste disparità. Nel 2024, il 13,8% dei minori viveva in povertà assoluta, contro una media nazionale del 9,8%. In pratica, un bambino su otto cresce in una famiglia che fatica a garantire beni essenziali come alimentazione adeguata, libri scolastici o cure primarie. Questa vulnerabilità si riflette immediatamente nell’istruzione: abbandonare la scuola senza un diploma è molto più probabile nelle città del Sud, dove oltre il 25% dei giovani a Catania, il 19,8% a Palermo e il 17,6% a Napoli lascia gli studi prima del termine. E ancora più allarmante è il fatto che più di uno studente su cinque arrivi alla terza media con competenze inadeguate in italiano. L’istruzione, che dovrebbe essere il più potente motore di mobilità sociale, diventa così il luogo dove si sedimentano e si amplificano le disuguaglianze.

Per capire perché il divario sia così marcato occorre guardare al contesto. La fragilità economica è il primo elemento: disoccupazione elevata, lavori irregolari, redditi bassi riducono la possibilità delle famiglie di sostenere i percorsi educativi dei figli. Un’altra componente è la debolezza dei servizi: mancano asili nido, mancano attività extrascolastiche accessibili, mancano spazi culturali che possano ampliare l’orizzonte dei più giovani. Le periferie sono spesso caratterizzate da degrado urbano, scarsi collegamenti, assenza di luoghi sicuri dove studiare o socializzare. A questo si aggiunge un mercato del lavoro stagnante, che rende poco credibile l’idea che un diploma o una qualifica possano davvero cambiare la vita, soprattutto nelle aree più depresse. Infine, molte città del Sud non dispongono di una rete educativa diffusa: mancano alleanze stabili tra scuole, associazioni, sport, biblioteche. Dove la comunità educativa è debole, la vulnerabilità dei minori cresce.
Il fenomeno dei Neet, giovani che non studiano né lavorano, è la conseguenza ultima di questo sistema fragile. A Catania il 35,4% dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni è Neet, a Palermo il 32,4%, a Napoli il 29,7%. A Roma e Milano la quota si aggira intorno al 20%, mentre a Bologna scende al 17,3%. Anche qui, però, il dato medio nasconde realtà interne molto diverse: nei quartieri meno favoriti di Bologna si arriva al 47,2%, mentre nelle zone più benestanti si scende fino al 5,6%. È la prova che il disagio non è solo geografico, ma urbano, sociale, culturale. Non riguarda un'intera città, ma specifiche porzioni del territorio, spesso lasciate indietro da anni di investimenti insufficienti o discontinui.
Perché questo divario è così difficile da colmare? Perché tocca dimensioni che si alimentano a vicenda. La povertà economica indebolisce i percorsi educativi, la povertà educativa alimenta quella lavorativa, la mancanza di opportunità genera sfiducia e sfiducia genera abbandono. È un circolo vizioso che passa di generazione in generazione e che trova terreno fertile nelle periferie meno attrezzate. Ma non è un destino. Ci sono territori che hanno mostrato come sia possibile invertire la rotta: scuole aperte oltre l’orario, doposcuola permanenti, progetti di tutoraggio, sport accessibile, rigenerazione degli spazi pubblici, interventi di prossimità. Quando la scuola diventa un presidio sociale e culturale, quando la comunità si stringe attorno ai minori più fragili, i risultati si vedono in pochi anni.
Il rapporto “Giovani e periferie” ci restituisce quindi un quadro duro, ma anche una direzione. Le disuguaglianze non si combattono con interventi episodici o misure una tantum: serve continuità, serve un investimento strutturale sulle aree più deprivate, serve una visione capace di tenere insieme educazione, welfare, urbanistica, lavoro. La sfida è colossale, perché riguarda la possibilità stessa che il Paese abbia un futuro equilibrato. Se un bambino del Nord e un bambino del Sud crescono con opportunità talmente diverse da generare traiettorie opposte, l’Italia non potrà mai dirsi coesa.
Sotto la superficie dei numeri c’è qualcosa di ancora più importante: ci sono infanzie fragili, talenti che rischiano di spegnersi, possibilità che non verranno mai colte. Non è solo questione di statistiche, ma di ciò che permettiamo – o neghiamo – a centinaia di migliaia di bambini. Un Paese si misura anche dalla distanza tra chi ha molto e chi ha poco. In Italia, quella distanza passa ancora troppo spesso per la geografia. E il fatto che in alcune città del Sud un minore su quattro viva in povertà educativa non è una parentesi, ma una ferita aperta.
Il divario Nord-Sud, però, non è una legge naturale: è il risultato di decenni di mancati investimenti, fragilità economiche, politiche pubbliche diseguali. Può essere corretto, e il punto di partenza è chiaro. Se vogliamo colmare questa differenza, dobbiamo smettere di trattare l’educazione come un accessorio e iniziare a riconoscerla per ciò che è: l’unica infrastruttura davvero capace di cambiare la vita delle persone e il destino dei territori. Perché un bambino non sceglie dove nascere. Ma un Paese può decidere se quella nascita sarà un limite o un’opportunità.
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