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Rai Torino, il grande inganno: il Centro Piero Angela sta spegnendo le luci

Mentre la stampa parla di rilancio, i sindacati denunciano una realtà opposta: produzioni intermittenti, studi usati come sale stampa e nessun progetto stabile. “È davvero notte sulla Rai a Torino”

Rai Torino, il grande inganno: il Centro Piero Angela sta spegnendo le luci

La sede Rai di Torino

A guardare le pagine dei giornali, Torino sembrerebbe tornata al centro dei piani Rai. Titoli rassicuranti, interviste fiduciose, indiscrezioni su un nuovo fermento produttivo. Ma chi a Torino lavora davvero – dietro le telecamere, nelle sale regia, negli studi di via Verdi – traccia un quadro completamente diverso. E le tre sigle sindacali Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil lo dicono senza mezzi termini: “Rai a Torino: ormai è veramente notte”.

Una notte lunga, fitta, che dura da anni. Perché mentre a Roma e Milano si parla di strategie industriali, a Torino si sopravvive con quello che capita: produzioni brevi, interventi sporadici, eventi occasionali che non costruiscono né stabilità né futuro. Per i sindacati non c’è alcuna svolta in corso, anzi: la percezione è quella di un lento disimpegno, di una marginalizzazione sempre più evidente del centro intitolato a Piero Angela, da sempre considerato un presidio simbolico e operativo della Rai.

Il nodo, spiegano, è uno: la narrazione ottimistica non coincide con la realtà quotidiana del Centro. Il lavoro continua a essere intermittente, frammentato, privo di quella continuità che dovrebbe caratterizzare un polo produttivo. Affidarsi a format stagionali come The Floor, o a eventi come le Nitto ATP Finals o la Regata Storica di Venezia, non significa programmare: significa tamponare. Significa mettere toppe.

Piero Angela

Piero Angela

Ma il caso più emblematico è quello di Stanotte a Torino. Doveva essere il gioiello della rinascita torinese. Invece, per i sindacati, è il simbolo del problema: un prodotto “eccezionale” affidato a un regista esterno alla Rai, poco attento alle professionalità locali e con quella “propensione romanocentrica” che da tempo caratterizza le produzioni affidate al mondo Angela. Un grande evento, certo. Ma un evento non fa primavera. E soprattutto non garantisce mesi di lavoro.

Ancor più controversa è la trasformazione dello Studio TV1, uno dei più grandi d’Europa, in sala stampa durante il Torino Film Festival. Un’operazione salutata con entusiasmo, quasi fosse un successo. Ma per i lavoratori è l’ennesima dimostrazione di come la Rai torinese stia perdendo la sua funzione originaria: uno studio televisivo non nasce per ospitare conferenze, nasce per produrre contenuti. Il resto – dicono – è maquillage.

E poi c’è la questione dei “trabocchi” milanesi, una formula elegante per dire che ciò che Milano non riesce a fare a causa delle Olimpiadi di Cortina viene scaricato su Torino. Per qualcuno è un’opportunità. Per i sindacati, è un ribaltamento del passato che non ha nulla di virtuoso. Fino a pochi anni fa erano i tecnici torinesi a essere richiesti a Milano, non il contrario. Ora accade l’opposto: un aiutino temporaneo, dettato dall’emergenza, non certo una strategia industriale.

Intanto Cuori, una delle poche produzioni seriali che aveva garantito continuità, è ferma. Le scenografie sono state smantellate, il set svuotato. E all’orizzonte non compare alcun progetto stabile di fiction, l’unico vero motore capace di dare lavoro a lungo termine e formare nuove generazioni di tecnici, scenografi, operatori, figure professionali che senza serialità restano sospese, senza prospettiva.

È vero, il lavoro sulle Teche Rai rappresenta un punto fermo. Ma è un pilastro che da solo non può sorreggere l’intero Centro. Archiviare e digitalizzare il patrimonio storico dell’azienda è fondamentale, certo, ma non potrà mai sostituire la funzione produttiva che Torino rivendica da sempre.

Ed è qui che sta il punto più allarmante: senza una direzione tematica radicata a Torino, senza una politica chiara sulla serialità, senza investimenti continuativi, ogni promessa rischia di ridursi a un titolo di giornale destinato a evaporare. Tutto il resto – dagli speciali di Angela ai grandi eventi – rischia di diventare solo fumo negli occhi.

I sindacati temono che Stanotte a Torino finisca per essere una metafora perfetta: la celebrazione di una città che la Rai racconta, ma non vive più davvero. Una notte televisiva che rischia di coincidere con la notte industriale del Centro di produzione torinese.

E allora l’appello delle organizzazioni dei lavoratori è diretto, quasi ultimativo: servono impegni veri, non apparizioni spot; progetti lunghi, non iniziative una tantum; una visione stabile, non una collezione di eventi. La Rai – dicono – ha il dovere di restituire a Torino un ruolo strutturale, all’altezza della sua storia e delle competenze che ancora possiede.

Il sindacato assicura che la propria parte la farà. Ma ora la palla è nelle mani dell’azienda. Perché il rischio è concreto: che quella notte evocata nel titolo del comunicato non sia solo un’immagine. Ma la fotografia reale del futuro del Centro Piero Angela. Una notte che, senza scelte coraggiose, rischia di diventare definitiva.

La Tv a Torino

Per capire la portata della denuncia dei sindacati, bisogna ricordare che cosa rappresenta – o meglio, che cosa ha rappresentato – la Rai a Torino. Perché il Centro di via Verdi non è mai stato un semplice presidio locale né un’appendice del colosso romano: è un pezzo di storia nazionale, un frammento vivo della costruzione culturale del Paese.

Qui, nei primi decenni del Novecento, quando l’Italia scopriva la radiofonia, prendevano forma le prime trasmissioni, le prime prove tecniche, le prime voci che avrebbero attraversato il Paese da nord a sud. Dai tempi della URI e poi dell’EIAR, Torino è stata uno dei laboratori originari della comunicazione italiana, un luogo in cui tecnica e creatività hanno costruito il nuovo linguaggio della modernità.

Il vero salto, però, avviene negli anni Sessanta: mentre il Paese cambia volto e si affaccia alla televisione di massa, la Rai decide di puntare sulla città e inaugura il grande Centro di Produzione di via Verdi, con studi tra i più avanzati d’Europa. È il 1968 quando il complesso apre le sue porte, imponendosi da subito come uno dei poli energetici della televisione pubblica. Qui si registrano programmi, si sperimentano linguaggi, si coltivano professioni. Qui crescono tecnici, autori, registi, scenografi che diventeranno colonne portanti dell’azienda. A Torino nascono trasmissioni, format, produzioni che entrano nelle case degli italiani e contribuiscono a definire la Rai per come l’abbiamo conosciuta.

E poi c’è un altro elemento che distingue questa sede da tutte le altre: il Museo della Radio e della Televisione. Un luogo unico in Italia, un archivio vivo di apparati, suoni, materiali, memorie, che racconta quasi un secolo di comunicazione. Una delle poche istituzioni capaci di restituire al pubblico la storia tecnologica e culturale del Paese. Un patrimonio che parla, che mostra, che educa, e che sottolinea, meglio di qualsiasi slogan, quanto questa città sia stata parte integrante della storia Rai.

Ecco perché oggi il malessere è così profondo. Perché la lenta marginalizzazione del Centro torinese non è solo una questione di occupazione o di investimenti insufficienti: è la perdita di un ruolo storico. Dove una volta si producevano programmi in continuità, oggi prevalgono eventi “a spot”. Dove gli studi erano usati per generare contenuti, oggi diventano scenografie per conferenze stampa. Dove la serialità garantiva mesi di lavoro e formazione professionale, oggi si naviga a vista, aspettando l’occasione buona, l’evento eccezionale, il “trabocco” milanese da gestire per necessità. Un modello che non crea futuro, e che soprattutto tradisce la vocazione originaria del Centro.

L’intitolazione a Piero Angela, avvenuta nel 2024, avrebbe dovuto essere un nuovo inizio: un segno di riconoscimento della storia e insieme un impegno verso il futuro. Ma finora, denunciano i sindacati, la distanza fra simboli e realtà è rimasta enorme. Il Centro produce meno, programma meno, forma meno. Ha le strutture, le competenze, la tradizione per essere un motore della tv pubblica, e invece rischia di trasformarsi sempre più in un presidio occasionale, un luogo che accoglie eventi ma non sviluppa più progetti.

È in questo contesto che la protesta dei lavoratori trova il suo significato più forte. Non è una rivendicazione corporativa, ma un allarme culturale. Quando un pezzo di storia Rai viene messo in stand-by, non perde solo Torino: perde l’Italia intera. E quella “notte” evocata dal sindacato non riguarda solo il futuro dei professionisti del Centro, ma il ruolo della televisione pubblica in un Paese che continua ad aver bisogno di luoghi in cui raccontarsi, formarsi, innovare e conservare la propria memoria.

Se non si invertirà la rotta, il rischio è che a Torino restino le targhe, i ricordi, i musei, ma si spenga ciò che ha reso grande questa sede: la produzione, la continuità, il lavoro. La luce che per decenni ha illuminato il Centro Rai di via Verdi non si è mai spenta davvero. Ma oggi, lo ammettono in molti, sta tremolando. E senza decisioni chiare, potrebbe non riaccendersi più.

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