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“Lista stupri” nel bagno del Giulio Cesare: dieci nomi di studentesse scritti in rosso. Scoppia il caso

Nel bagno dei maschi, una scritta in rosso e una sequenza di nomi: la denuncia del collettivo studentesco accende i riflettori su scuola, responsabilità e cultura. Dalla preside alla politica, il coro di condanne. E i numeri dicono che non è un caso isolato.

“Lista stupri” nel bagno del Giulio Cesare: dieci nomi di studentesse scritti in rosso. Scoppia il caso

“Lista stupri” nel bagno del Giulio Cesare: dieci nomi di studentesse scritti in rosso. Scoppia il caso

La porta che si chiude, il colpo secco del chiavistello, il corridoio che svanisce. Sulle piastrelle chiare del bagno maschile del secondo piano del Liceo Giulio Cesare compare una scritta in rosso, due parole che non contemplano attenuanti: “Lista stupri”. Sotto, allineati con cura disturbante, i nomi e i cognomi di una decina di ragazze della stessa scuola. Un gesto che qualcuno, nei soliti angoli dell’autocompiacimento adolescenziale, definirebbe “goliardia”, ma che per chi ci finisce dentro ha la sostanza di una minaccia. A far scattare l’allarme non sono docenti o personale scolastico, ma gli studenti del collettivo Zero Alibi, che fotografano, denunciano, pubblicano su Instagram e costringono tutti a guardare. La notizia si diffonde il 27 novembre 2025, appena quarantotto ore dopo il 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un tempismo che non ha bisogno di didascalie.

La scritta compare nel bagno maschile del secondo piano e viene subito rilanciata dal collettivo Zero Alibi, che nel suo post parla di gesto “di gravità inconcepibile”, mettendolo in relazione con un clima quotidiano che normalizza la violenza e riduce i corpi femminili a superfici da nominare e possedere. Nella stessa denuncia gli studenti ricordano un altro episodio recente: due fogli di una raccolta firme contro la violenza di genere sarebbero stati strappati pochi giorni prima. La richiesta è chiara: portare in classe un’educazione sessuo-affettiva continua, strutturata, non relegata alle commemorazioni. Le testate locali e nazionali riprendono la storia in poche ore, insieme alla frase che diventa simbolo: “Un muro si cancella, la cultura che lo genera no”. È la sintesi di ciò che molti avevano intuito: non un lampo isolato, ma un sintomo.

Dalla scuola arriva la condanna della dirigente Paola Senesi, che parla di “ottusi graffiti vandalici” e ribadisce l’impegno del Liceo classico statale Giulio Cesare nel trasmettere valori costituzionali e rispetto reciproco. È una presa di posizione che va oltre il comunicato formale: richiama la responsabilità educativa di un’istituzione che ogni giorno tenta di spiegare ai suoi studenti la differenza tra libertà d’espressione e aggressione simbolica.

La politica si muove subito. La capogruppo di Forza Italia in Campidoglio, Rachele Mussolini, definisce l’episodio una “violenza che ha dell’incredibile” e chiede sanzioni severe per gli autori. È la reazione più immediata e prevedibile: la ricerca di una punizione esemplare che rassicuri famiglie e opinione pubblica. Ma l’idea che basti colpire i responsabili per estirpare la radice culturale del gesto è una scorciatoia già vista.

Non sarebbe comunque il primo segnale inquietante tra le mura del Giulio Cesare. Tra il 25 e il 26 novembre 2024, alcuni cartelloni realizzati dagli studenti per la Giornata contro la violenza sulle donne erano stati strappati, bruciati e gettati nei bagni. Anche allora fu Zero Alibi a denunciare, raccontando persino cori denigratori durante un’iniziativa di sensibilizzazione. La sequenza, messa una accanto all’altra, forma ormai una linea di continuità: il gesto provocatorio, l’oggetto distrutto, il messaggio violento, la comunità scolastica chiamata a ricomporre. Non “ragazzate”, ma segnali. Il gioco di ruolo che normalizza la predazione e la mette in scena, in miniatura, lì dove si imparano storia, filosofia, latino e – in teoria – convivenza civile.

Il paradosso è che tutto accade nella settimana in cui scuole, associazioni e università parlano di rispetto, consenso, educazione all’affettività. A Roma i quaderni rossi di Save the Children appesi tra gli alberi di Testaccio ricordano con pagine bianche ciò che manca: spazi reali per affrontare il tema con continuità. E mentre le piazze discutono, qualcuno nel Giulio Cesare sceglie di scrivere l’opposto su una piastrella.

I numeri dell’ultimo biennio aiutano a inquadrare l’episodio. Il Servizio analisi criminale della Polizia registra nel 2024 un calo dei femminicidi (113, circa -6% sul 2023) ma un aumento di violenze sessuali e stalking. L’estremo diminuisce, i segnali premonitori crescono. Colpisce soprattutto l’età: il 28% delle vittime di violenza sessuale registrate nel 2024 è minorenne. Ancora più netto è il dato sul sommerso: solo una donna su dieci denuncia un partner violento. Un’analisi del novembre 2025 lo conferma: la paura, la sfiducia, il contesto sociale bloccano il gesto. Tra le più giovani l’incidenza delle molestie è più alta della media nazionale, e questo rende l’episodio del Giulio Cesare un indicatore, non una parentesi.

Nel frattempo crescono i Centri antiviolenza (+4,9% nel 2023, +43,8% dal 2017) e aumentano le chiamate al 1522 nel 2024: un termometro della domanda di aiuto. Ma i servizi, da soli, non bastano se la scuola non riconosce i segnali e non costruisce percorsi stabili di prevenzione, rivolti sia agli studenti sia agli adulti che li accompagnano.

Gli studenti del collettivo Zero Alibi insistono su un punto che ricorre da anni: educare, non commemorare. Parlare di affettività, consenso, linguaggi ostili, relazioni, mascolinità tossica. Non workshop sporadici, non iniziative simboliche, ma un curricolo. Lo ricordano anche i quaderni rossi a Testaccio: quelle pagine vuote chiedono un’assunzione di responsabilità collettiva.

La questione, per la scuola, diventa un bivio tra repressione ed educazione. La sanzione è necessaria, ma non basta se rimane isolata. Servono percorsi disciplinari trasparenti, procedure di riparazione, spazi di confronto guidato. Serve che la scuola, insieme alle famiglie e al territorio, accetti di affrontare ciò che i dati raccontano con ostinazione: tra i giovanissimi, la violenza non si manifesta solo nei fatti estremi, ma nei linguaggi, nei meme, nelle liste, nei rituali di gruppo che costruiscono identità sulle spalle di altri.

Sul piano legale, la scuola può attivare segnalazioni, tutelare le studentesse i cui nomi sono stati esposti, coinvolgere sportelli psicologici e Uffici scolastici, ricordare che esistono strumenti come il 1522 e la rete dei CAV. Le ultime note istituzionali indicano che tra l’82 e il 91% delle vittime di molti reati spia sono donne. Non è un dettaglio statistico: è l’ambiente in cui questa “lista” si inserisce.

Ad oggi, 28 novembre 2025, le certezze sono poche ma solide: la scritta, i nomi, la denuncia di Zero Alibi, la condanna della preside Paola Senesi, le reazioni politiche. Non ci sono informazioni ufficiali su eventuali responsabili identificati o indagini formali. La scuola sembra orientata verso una linea di fermezza. E il lavoro giornalistico consiste proprio in questo: distinguere i fatti dalle interpretazioni. Un muro parla da solo; capire cosa fare dopo è la misura di una comunità.

Il corto circuito resta tutto lì: in una scuola che insegna Omero e Platone, qualcuno si diverte a elencare studentesse sotto il titolo “lista stupri”. Cultura alta e cultura dello scherno si toccano nello stesso bagno del secondo piano. Eppure è proprio in quel punto che la scuola può intervenire con più forza: trasformare il gesto in un’occasione di apprendimento reale, non nel tormentone di una settimana simbolica. Perché cancellare una scritta è un’azione di pulizia; cambiare il contesto che l’ha resa possibile è un lavoro di civiltà. E richiede la stessa costanza con cui, ogni mattina, il corridoio si riempie di voci che ancora possono imparare.

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