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28 Novembre 2025 - 07:59
Trump chiude la porta al Sudafrica: il G20 diventa un’arma politica
All’ora di pranzo a Pretoria la notizia corre sui telefoni dei diplomatici come un lampo sgradevole: un post su Truth Social, nuove maiuscole urlate, l’intonazione perentoria del comando. Donald Trump annuncia che il Sudafrica “non riceverà l’invito” al G20 del 2026, che gli Stati Uniti intendono ospitare “nella Grande Città di Miami”. L’accusa è quella consueta, ma questa volta affilata per colpire: presunte “orribili violazioni dei diritti umani” contro gli agricoltori bianchi, un “genocidio” contro gli afrikaner. Dal palazzo della Presidency sudafricana arriva una replica insolitamente dura: “Siamo membri in virtù della decisione di tutti, non si può essere esclusi per decreto unilaterale”. La crepa si apre e mette a nudo tre fragilità spesso ignorate della governance globale: l’estrema informalità del G20, la politicizzazione crescente della presidenza di turno e l’uso strumentale di narrative sui diritti umani che i dati disponibili non corroborano.
Secondo le ricostruzioni dei media americani ed europei, il messaggio di Trump poggia su due pilastri: le presunte violenze “sistematiche” contro i bianchi in Sudafrica, soprattutto gli agricoltori, e un episodio protocollare avvenuto alla chiusura del G20 di Johannesburg del 22-23 novembre 2025, quando, a suo dire, Pretoria si sarebbe rifiutata di “passare il testimone” a un funzionario dell’ambasciata USA. Il presidente aggiunge lo stop immediato a “pagamenti e sussidi” verso il Sudafrica, dopo che Washington aveva già boicottato il primo vertice del forum mai ospitato sull’Africa. Nelle ore successive, testate come il Washington Post, Politico, Reuters e il Guardian confermano toni e contenuti, ricordando che il vertice del 2026 è già pianificato nell’area di Miami e che la Casa Bianca ha scelto la linea dura anche altrove: dazi generalizzati sui prodotti sudafricani e una retorica sul supposto “genocidio bianco” che esperti e ONG hanno contestato in più occasioni.
La replica del governo sudafricano arriva con una nota della Presidency e del ministero degli Esteri (DIRCO): la delegazione statunitense era assente al G20 per scelta propria; il passaggio degli strumenti della presidenza è comunque avvenuto regolarmente presso il DIRCO; soprattutto, il Sudafrica è “membro del G20 in nome e per diritto proprio”, dunque non può essere escluso unilateralmente dal paese ospitante. Una risposta calibrata, ma ferma, che richiama la prassi del consenso e la necessità di difendere lo spazio multilaterale.
Per capire se un presidente-ospite possa davvero “disinvitare” un membro serve ricordare la natura stessa del G20: un foro informale, senza statuto, senza trattato, senza segreteria permanente. La presidenza ruota ogni anno, assistita dalla troika (presidenza uscente, corrente e entrante: nel 2025 Brasile, Sudafrica, Stati Uniti). Gli inviti discrezionali riguardano i soli “guest countries” e le organizzazioni internazionali, non i venti membri effettivi (i 19 paesi più l’UE, a cui dal 2023 si aggiunge l’Unione Africana come membro pieno). Non esiste dunque alcuna procedura codificata per l’espulsione di un membro. Tuttavia, un paese ospite può intervenire su un piano più prosaico ma altrettanto decisivo: il rilascio dei visti. Bloccare o frenare l’ingresso della delegazione può trasformarsi, nella pratica, in una esclusione di fatto. In parallelo, analisi come quella pubblicata da Al Jazeera ricordano che un divieto “ufficiale” è impossibile in un forum informale, ma il controllo delle frontiere resta prerogativa sovrana dello Stato ospitante: un dettaglio tecnico che diventa immediatamente geopolitico.
Il dossier dei “diritti umani” invocato da Trump è la chiave per comprendere la dinamica politica. L’idea di una violenza etnica contro i bianchi, e di espropri sistematici ai danni degli afrikaner, è un frame che il presidente utilizza da anni. Ma fact-check indipendenti come Africa Check, basati sui dati della SAPS e di ricerche accademiche, mostrano che i cosiddetti “farm murders” sono fenomeni reali e feroci, ma inseriti in un panorama criminale più vasto, che colpisce tutte le comunità con motivazioni prevalentemente predatorie: furti, rapine, sequestri. Le statistiche sono incomplete e spesso poco comparabili, ma non emergono pattern che indichino una persecuzione razziale organizzata dallo Stato. Anche la magistratura sudafricana ha smentito più volte la narrativa del “genocidio bianco”, e vari casi giudiziari confermano indagini e condanne dei responsabili.
La frattura, però, non nasce oggi. Gli Stati Uniti hanno boicottato il G20 di Johannesburg, lasciando che il vertice si chiudesse senza la loro firma su una dichiarazione finale centrata su clima, debito e uguaglianza—priorità rivendicate da Pretoria. In parallelo, la Casa Bianca ha imposto dazi del 30% su ampie categorie di import sudafricano a partire da agosto 2025. Secondo stime del governo sudafricano e delle principali associazioni di categoria, i nuovi dazi hanno messo a rischio tra 30.000 e 35.000 posti di lavoro, colpendo soprattutto la citrus industry e il settore automotive. Qui il paradosso è evidente: il AGOA (African Growth and Opportunity Act) aveva garantito per anni un accesso preferenziale al mercato USA, ma la nuova stagione tariffaria ne ha neutralizzato i benefici. Eppure, il ministero del Commercio sudafricano continua a dichiararsi ottimista sulla possibilità di un rinnovo, pur ammettendo che incertezza normativa e dazi aggiuntivi frenano investimenti e piani industriali.
I numeri macroeconomici restano significativi: nel 2024 l’interscambio di beni e servizi tra USA e Sudafrica ha raggiunto 26,2 miliardi di dollari, con un saldo negativo per gli Stati Uniti di 8,9 miliardi nei beni, parzialmente compensato dall’avanzo nei servizi, secondo i dati ufficiali della USTR.
Il quadro che si profila per il 2026 è dunque un intreccio di procedure, pressioni diplomatiche e variabili politiche. Sul piano formale, nessun paese può “revocare” la partecipazione di un membro del G20. Sul piano reale, però, tutto può dipendere da visti, protocolli e interpretazioni politiche. Nel giro di poche ore, la Germania ha invitato Washington a “ripensarci”, evocando la necessità di mantenere il foro “inclusivo” e avvertendo che la linea unilaterale mina le basi del consenso. Non è un dettaglio: il messaggio indica che i partner europei hanno già individuato nel gesto di Trump un precedente pericoloso. A complicare il quadro c’è la questione della sede: secondo diverse ricostruzioni, il vertice si terrebbe nell’area di Miami, forse nel resort di Doral, riconducibile agli interessi privati dello stesso presidente. Un dettaglio che, a livello internazionale, pesa più di quanto sembri.
L’uso politico dell’invito al G20—storicamente uno strumento per ampliare il raggio del forum, non per restringerlo—trasforma il tavolo da luogo di coordinamento economico a palcoscenico di scontro geopolitico immediato. La troika Brasile–Sudafrica–USA rischia di incepparsi proprio nel momento in cui dovrebbe garantire continuità tra l’eredità di Johannesburg 2025 e la costruzione dell’agenda verso Miami 2026. L’eventuale esclusione del Sudafrica indebolirebbe inoltre la rappresentanza del Sud globale nel momento in cui l’Unione Africana è appena diventata membro pieno. E la credibilità stessa del G20, costruita sull’equilibrio tra formalità leggera e cooperazione sostanziale, finirebbe sotto stress.
Nelle cancellerie si immagina un percorso di de-escalation. Una possibile via passa da una mediazione interna al G20: il Brasile e diversi partner europei potrebbero proporre una lettera comune a difesa dell’inclusività del foro, offrendo a Washington una via d’uscita che salvi la faccia. Un’altra strada passa per la diplomazia silenziosa dei visti: note verbali, ingressi speciali, immunità circoscritte solo alle ore del summit. Non sarebbe la prima volta che un foro multilaterale aggira tensioni politiche con soluzioni tecniche.
Sul fronte economico, il Sudafrica affronta un contesto complesso: crescita lenta, disoccupazione elevata, crisi energetiche ricorrenti. Nel settore citrico, l’associazione dei produttori teme l’impatto su 35.000 posti di lavoro, con ricadute anche per i consumatori americani, che potrebbero ritrovarsi a pagare prezzi più alti. Nell’automotive, tariffe e incertezza scoraggiano piani industriali di lungo periodo. Pretoria, intanto, cerca nuovi mercati e accordi con Medio Oriente, Asia e Africa continentale, mentre il ministero degli Esteri punta a negoziare eccezioni mirate con Washington. Il vero banco di prova sarà il destino dell’AGOA, in scadenza entro settembre 2025: prima dell’ultima fiammata tariffaria, al Capitol Hill prevaleva l’idea di un rinnovo breve e condizionato.
Resta poi la dimensione simbolica del G20 ospitato a Doral. Un summit globale in un resort riconducibile al presidente alimenta accuse di conflitti d’interesse e offre ai critici un’immagine di G20 “privatizzato”. E nell’arena delle relazioni internazionali, i simboli contano quanto gli atti formali.
Il G20 sudafricano del 2025 si era presentato come una stagione di solidarietà e sostenibilità, puntando su debito dei paesi vulnerabili, transizione energetica giusta, inclusione digitale. Il DIRCO aveva promosso iniziative come “AI for Africa” e mobilitato gli Engagement Groups dal C20 al B20. Resta ora da capire se il 2026 statunitense riuscirà a recepire quell’eredità o se trasformerà il tavolo in un’arena di esclusioni.

L’onestà del discorso pubblico è l’ultima questione sul tavolo. Che nelle campagne sudafricane si muoia in modo brutale è un fatto. Che le vittime siano spesso agricoltori e famiglie indifese è un fatto. Che la violenza sia trasversale e diffusa è un dato quotidiano. Da questi fatti, però, non discende la prova di un “genocidio bianco” orchestrato o tollerato dallo Stato. I numeri ufficiali della USTR ricordano intanto che la relazione economica tra Stati Uniti e Sudafrica è ampia, complessa e potenzialmente vantaggiosa per entrambi. Usare accuse di diritti umani per punire un membro del G20 rischia di svuotare la stessa causa dei diritti quando i dati non la supportano. Una buona politica estera—che sia di Washington o Pretoria—dovrebbe tenere insieme fermezza sui principi e rigore nei fatti.
Nelle prossime settimane, l’attenzione sarà puntata sulle mosse della troika, sulle decisioni dei partner europei, sulle eventuali linee guida dei visti per le delegazioni del G20, sull’evoluzione dei dazi e sul destino dell’AGOA, sulle reazioni degli altri membri e sulla posizione dell’Unione Africana. A Pretoria ribadiscono che il Sudafrica sarà “membro pieno, attivo e costruttivo” del G20. A Washington, la musica è diversa: “In Florida decideremo noi chi entra e chi no.” Ed è tra questi due estremi, carichi di politica e simboli, che si gioca il futuro del principale tavolo di coordinamento economico globale.
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