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27 Novembre 2025 - 23:30
ROBERT PREVOST PAPA LEONE XIV, RECEP TAYYIP ERDOGAN PRESIDENTE DELLA TURCHIA, EMINE ERDOĞAN MOGLIE
La scena si apre su un tappeto blu che taglia il piazzale del Complesso Presidenziale di Ankara, un corridoio simbolico che incornicia la coreografia di un potere che da anni ricama la propria narrazione tra tradizione e modernità. Ai lati, le uniformi d’ordinanza dell’esercito e le corazze d’ispirazione ottomana dei reparti cerimoniali costruiscono una doppia memoria visiva mentre, al centro, a pochi passi dal Monumento ai Martiri del 15 luglio, sfilano Papa Leone XIV e il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Il pontefice accetta di passare in rassegna le truppe, gesto raro per un Papa dopo gli anni in cui Francesco appariva spesso in sedia a rotelle, e compie così una scelta che diventa messaggio politico: se il dialogo vuole essere reale, deve saper camminare anche sui tappeti degli altri. È l’avvio del suo primo viaggio all’estero, un percorso che lega Ankara, Istanbul e Iznik/Nicea nei 1.700 anni dal primo concilio, ma soprattutto si misura con le fratture di un presente che chiede risposte, non simboli vuoti.



La cerimonia davanti al palazzo presidenziale non è soltanto protocollo: è un atto che si svolge ai piedi del monumento eretto dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016, una ferita ancora viva nella memoria della Turchia contemporanea. L’opera, alta circa 31 metri, con un’area cerimoniale di 2.500 metri quadrati e decorata con i nomi dei 249 caduti, è divenuta negli anni un altare civile. Collocarvi la guardia d’onore e il tappeto blu che il Papa percorre significa inserire la visita dentro la narrazione nazionale turca: non eluderla, ma entrarci in punta di piedi e allo stesso tempo con consapevole determinazione. Anche il successivo passaggio ad Anıtkabir, il mausoleo di Mustafa Kemal Atatürk, dialoga con questa grammatica: una corona deposta e una firma sul Libro d’Onore che invoca “pace e prosperità” per la Turchia diventano un ponte tra la laicità repubblicana kemalista e la presenza di una leadership religiosa globale che attraversa simboli non suoi senza sottrarsi.
Dopo il colloquio con Erdoğan, il Papa parla nella Biblioteca della Nazione del Complesso Presidenziale. Sceglie l’inglese invece dell’italiano, lingua di lavoro vaticana, e questa rottura è già un primo segnale. Davanti a un grande globo terrestre, chiede che la Turchia sia un “fattore di stabilità e di avvicinamento tra i popoli, al servizio di una pace giusta e duratura”. Riprende la lezione di Francesco sulla “terza guerra mondiale a pezzi”, trasportandola nel cuore del Mediterraneo allargato. A 70 anni, eletto l’8 maggio 2025, il Papa americano sottolinea la posizione unica della Turchia, ponte geografico e politico tra Oriente e Occidente, Asia ed Europa, crocevia di culture e religioni. Non lo fa con retorica da cerimoniale, ma guardando ai dossier concreti: il ruolo turco nella mediazione dei conflitti in Ucraina e a Gaza, gli equilibri regionali, la tutela delle minoranze.
Il capitolo dei diritti è il punto in cui il discorso si fa più delicato. Leone XIV riflette sul contributo delle donne alla coesione sociale e sfiora, senza citarla esplicitamente, la ferita provocata dall’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul il 1° luglio 2021. Proprio nei giorni della visita, Ankara annuncia un piano in cinque punti contro la violenza di genere, quasi a voler riallineare l’agenda interna con le aspettative della comunità internazionale. Il Papa non forza la mano, ma mette un principio sul tavolo: la dignità femminile come architrave della pace. Sembra una frase astratta, ma in realtà è un chiaro riferimento al “gold standard” del Consiglio d’Europa per la protezione delle donne.
Se Ankara rappresenta la trattativa con il presente, Nicea, l’attuale Iznik, è il ritorno alla sorgente. Nel 325 d.C., l’imperatore Costantino convocò lì il primo concilio ecumenico per definire il Credo. Tornarci dopo 1.700 anni significa misurare la distanza tra memoria e pratica. Leone XIV ha costruito il viaggio come una settimana ecumenica con il patriarca ecumenico Bartolomeo I, fatta di preghiere comuni, incontri al Fanar e una possibile Dichiarazione congiunta. Un percorso che raccoglie l’eredità degli incontri tra Paolo VI e Atenagora, dei gesti di Francesco e Bartolomeo, e che ora chiede di diventare esperienza quotidiana nelle comunità cristiane.
Ogni gesto del viaggio è calibrato all’interno della coreografia politica turca. L’arrivo all’aeroporto Esenboğa e la parata al palazzo presidenziale misurano il rapporto tra rappresentazione e potere: il tappeto blu, adottato come segno di sovranità moderna, scorre fino alla guardiola accanto al monumento del 15 luglio, intrecciando trauma e continuità. Camminarlo significa accettare il terreno dell’altro senza cedere la propria agenda, e il Papa lo fa con la sobrietà di chi non fugge il contesto, ma lo attraversa. Lo stesso vale per Anıtkabir, dove l’omaggio a Atatürk diventa un riconoscimento della laicità repubblicana. È una grammatica già vista nel 2014, quando Francesco entrò nella Moschea Blu accanto al Gran Muftì: rispetto e silenzio come linguaggi universali.
Nel discorso scorrono, senza nominarli direttamente, i fronti più caldi: Ucraina, Gaza, le tensioni tra Israele e Libano. È la geografia della sofferenza che accompagnerà tutto il viaggio, fino a Beirut, dove il Papa vuole parlare ai giovani e pregare tra le rovine del porto. Il concetto di “terza guerra mondiale a pezzi” diventa il filo rosso: una pace giusta richiede istituzioni capaci di realizzarla, non semplici invocazioni. È un richiamo alla responsabilità politica e alla necessità del disarmo, della tutela dei civili, della protezione delle minoranze.
Il quadro ecumenico non indulge in illusioni. Nessuno a Roma o al Fanar immagina fusioni imminenti, ma Leone XIVpunta a una comunione visibile costruita con pazienza e determinazione. A Istanbul, parteciperà alla Divina Liturgiaal Patriarcato di San Giorgio nella festa di Sant’Andrea, poi celebrerà Messa alla Volkswagen Arena, trasformando per una sera un’arena sportiva in cattedrale provvisoria.
La Turchia, con la sua maggioranza musulmana sunnita, le minoranze cristiane e la sua tradizione ortodossa, resta un laboratorio unico. La visita a Santa Sofia, alla Moschea Blu e gli incontri con i leader religiosi completano il mosaico. L’idea del Papa è spezzare l’inerzia delle identità contrapposte: non relativismo, ma convinzione che l’assoluto religioso non si difenda negando l’altro.
Nel dialogo con Erdoğan, emergono la questione palestinese, la richiesta di una soluzione a due Stati, la rivendicazione del ruolo di mediatore turco e il tema della sicurezza interna. Sullo sfondo, l’economia e la pressione di milioni di rifugiati siriani. Tutto questo non entra esplicitamente nel protocollo vaticano, ma condiziona la percezione pubblica del viaggio in Turchia e il modo in cui sarà letto nei prossimi mesi.
Le immagini che restano sono tre: il tappeto blu e la rassegna delle truppe come metafora di un dialogo che accetta il contesto altrui; la corona e la firma ad Anıtkabir, che riconoscono la laicità repubblicana come parte della convivenza; il discorso alla Biblioteca della Nazione, che lega pace, diritti e diplomazia in un’unica cornice.
Il viaggio prosegue verso Istanbul, dove l’abbraccio con Bartolomeo I, la Dichiarazione congiunta e la Messa in arena diranno molto sulla credibilità del percorso ecumenico. Poi la tappa di Beirut, città ferita ma ancora capace di pluralismo, dove il Papa sceglie di parlare ai giovani, puntando lo sguardo sul futuro mentre la politica spesso resta prigioniera del passato.
A bordo dell’aereo per Ankara, il Papa, nato a Chicago, saluta i giornalisti con un “Happy Thanksgiving”. Un gesto da nulla, ma che dice molto: la capacità di ricordare le proprie radici mentre si affrontano i nodi del mondo. Una cortesia che diventa filo narrativo tra intimità e missione, tra il rito familiare di una festa e la gravità di un viaggio che chiede alla Turchia di essere ponte.
Alla fine, quando il tappeto blu si arrotola e le fanfare tacciono, resta la strada. Leone XIV la percorre con la sobrietà di chi non cerca applausi, ma risultati. Chiede alla Turchia ciò che chiede al mondo: essere ponte, non slogan; pratica quotidiana, non retorica. Mediazione, tutela dei diritti, dignità delle donne, ordine internazionale fondato sul diritto e sul dialogo. Se questo viaggio smuoverà davvero qualcosa lo si capirà nei prossimi mesi. Per ora resta l’immagine nitida: davanti al monumento del 15 luglio, tra alabarde ottomane e uniformi moderne, un Papa chiede di costruire pace. Non una pace qualunque, ma una pace “giusta e duratura”.
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