AGGIORNAMENTI
Cerca
Esteri
27 Novembre 2025 - 22:30
Gaza, la tregua che non salva: accuse di genocidio oltre il silenzio delle armi
Il primo rumore è quello di un generatore che tossisce, un rantolo metallico che regge a fatica una pompa dell’acqua infilata in una cisterna sbrecciata, dentro un campo di tende che il vento ha ridotto a brandelli. Il secondo è un fischio sottile: un drone che pattuglia la linea di demarcazione, la cosiddetta “zona gialla”. Poi arriva il silenzio innaturale della notte senza elettricità, un buio che inghiotte tutto. È in questa sospensione che, secondo Amnesty International, il “genocidio” contro i palestinesi di Gaza continuerebbe “senza tregua”, nonostante la tregua. L’organizzazione sostiene che il cessate il fuoco del 9–10 ottobre 2025 non abbia modificato sostanza né intenzioni: aiuti contingentati, servizi essenziali non ripristinati, evacuazioni mediche con il contagocce e nuove ondate di sfollamento configurerebbero “condizioni di vita calcolate per provocare la distruzione fisica del gruppo”, in aperta violazione degli ordini della Corte internazionale di giustizia (CIG).
Nel suo nuovo briefing “post-ceasefire”, Amnesty descrive un quadro in cui la riduzione dei bombardamenti e un parziale afflusso di aiuti non cambiano la realtà sul terreno. Le restrizioni all’ingresso di beni e materiali restano “severe”, gli ostacoli al ripristino delle infrastrutture vitali – acqua, elettricità, fognature, rimozione di macerie e ordigni inesplosi – persistono, mentre la distribuzione degli aiuti è compromessa da limiti operativi e da un territorio disseminato di zone interdette. Le testimonianze raccolte da operatori sanitari e residenti raccontano lo stesso scenario: “aumentare il numero di camion non basta” se nessuno può riparare ciò che è stato distrutto o muoversi in sicurezza.
Secondo i dati delle agenzie delle Nazioni Unite, l’ingresso del cibo è sì migliorato, ma rimane lontano dal fabbisogno reale. Il Programma alimentare mondiale (WFP) quantifica in circa 40.000 le tonnellate di aiuti consegnate dalla tregua, un volume che copre appena il 30% dell’obiettivo. Nei mercati che faticano a riaprire i prezzi restano proibitivi e la popolazione sopravvive con due pasti al giorno, poveri, ripetitivi, nutrizionalmente inadeguati.
La tregua non ha chiuso la porta alla violenza. Medici Senza Frontiere segnala nuovi feriti, compresi minori, colpiti da armi da fuoco o residui bellici; il ministero della Sanità di Gaza parla di centinaia di morti dall’11 ottobre in poi. Più della metà del territorio resta sotto controllo o interdizione militare israeliana. Le aree “no-go” si sovrappongono agli ordini di evacuazione, creando una mappa di vita impossibile. La narrativa ufficiale israeliana insiste sull’aumento dei camion umanitari e sui pasti distribuiti tramite cucine da campo; i dati del COGAT rivendicano oltre 16.000 camion entrati dopo la tregua di ottobre, il 70% dei quali carichi di derrate. Ma il confronto con i target dell’ONU e con lo stato dei servizi essenziali mostra un divario evidente: il flusso di merci non si traduce automaticamente in acqua potabile, cure o sicurezza alimentare.
Sul fronte legale, gli ordini della Corte dell’Aia del 26 gennaio, 28 marzo e 24 maggio 2024 impongono a Israele di garantire “senza ritardo” la fornitura su scala di aiuti e servizi essenziali, aprendo più valichi terrestri e rimuovendo gli ostacoli materiali alla sopravvivenza dei civili. È su questo punto che Amnesty denuncia le inadempienze più gravi. L’organizzazione richiama anche analisi dell’ONU, che nel 2025 hanno parlato apertamente di condizioni “incompatibili con la sopravvivenza del gruppo come tale”, una valutazione pesante e contestata ma destinata a pesare su politica e tribunali.
L’ingresso degli aiuti resta un collo di bottiglia. Secondo OCHA, dal 13 ottobre le distribuzioni generali di cibo hanno raggiunto circa un milione di persone attraverso 46 punti, ma la congestione ai valichi, l’insicurezza delle strade e le aree interdette rallentano tutto. Anche quando i camion passano, la pipeline non scorre con continuità. È lo stesso meccanismo che inceppa i servizi essenziali: senza carburante, pezzi di ricambio e materiali “a duplice uso”, le reti idriche ed elettriche restano collassate. È qui che si concentra l’accusa di Amnesty: non è la quantità dei sacchi di farina che fa la differenza, ma la possibilità di far funzionare una città.
Il 23 ottobre 2025, il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha ricordato che a Gaza non esiste un solo ospedale pienamente operativo: 14 su 36 funzionano solo parzialmente. La carenza cronica di energia impedisce la conservazione dei farmaci e paralizza terapie salvavita. Il canale delle evacuazioni mediche è una cartina di tornasole: tra 1 febbraio e 10 marzo 2025 l’OMS ha sostenuto l’evacuazione di 1.473 pazienti, ma tra 12.000 e 14.000 persone – tra cui oltre 4.500 bambini – sono rimaste in lista d’attesa urgente. Alla fine di ottobre i casi bisognosi di referenza erano stimati in 15.000, con oltre 700 morti in lista d’attesa. Una statistica che racconta la differenza tra un sistema di soccorso che funziona e uno che seleziona per sopravvivenza.
Intanto la geografia della Striscia si restringe. A metà maggio, secondo OCHA, il 71% del territorio era soggetto a ordini di evacuazione o rientrava in zone di controllo militare israeliano. In questa morsa, più di 400.000 persone sono state costrette a nuove fughe, in un movimento a fisarmonica che consuma risparmi, tende e salute mentale. Oxfamcalcola che tra marzo e maggio 2025 siano stati emessi oltre 30 ordini di spostamento forzato, con più dell’80% del territorio coinvolto. Fonti diverse restituiscono percentuali diverse, ma lo schema è costante: le “zone sicure” sono poche, sovraffollate, prive di servizi, spesso temporanee.
Gli indicatori sulla malnutrizione confermano una deriva grave. UNICEF e WFP hanno segnalato a maggio 2025 che l’intera popolazione era in insicurezza alimentare acuta, con 470.000 persone in condizione IPC 5, la fame catastrofica. Sono state chiuse 21 strutture di trattamento della malnutrizione; i sostituti del latte mancano; l’acqua non è sicura; i lattanti rischiano la vita per infezioni evitabili. È il corto circuito tra aiuti che arrivano e servizi che non funzionano.
Per la segretaria generale di Amnesty, Agnès Callamard, la tregua produce un’“illusione pericolosa” di normalizzazione. L’organizzazione sostiene che, dopo anni di bombardamenti e mesi di assedio totale, le autorità israeliane non avrebbero intrapreso misure significative per invertire la spirale di sofferenza, continuando a limitare quali organizzazioni possono distribuire aiuti e come. Israele respinge l’accusa, rivendica l’aumento degli ingressi e il trasferimento di salme nell’ambito delle intese di tregua e difende il sistema di autorizzazioni mediche. Ma i numeri di OMS e OCHA mostrano un bisogno che rimane molto più grande della capacità autorizzata.
La logistica interna non è meno problematica. Le strade sono insicure, i checkpoint imprevedibili, le interdizioni mobili; i convogli umanitari non raggiungono i 730 siti di sfollati monitorati da OCHA; scuole-rifugio e spazi di apprendimento temporanei vengono chiusi per mancanza di sicurezza o fondi. Anche l’ultimo chilometro della distribuzione si inceppa: saccheggi, paura, mancanza di carburante riducono i rifornimenti a episodi sporadici.
Sul piano diplomatico si discute di rafforzare la tregua, di una possibile forza internazionale, di un’autorità tecnica di transizione. Ma finché non saranno applicate in modo sostanziale le misure ordinate dalla CIG, il contenzioso è destinato a crescere: ostacoli agli aiuti, evacuazioni negate, sfollamenti reiterati. È in questa frattura, tra la tregua dichiarata e la vita che non torna, che la battaglia dei numeri diventa una battaglia di significati. Se, come afferma Amnesty, i vincoli non sono incidentali ma deliberati, la tregua non è una soluzione, ma un’interruzione superficiale della violenza.




Il rapporto dell’ONG non è un atto isolato, ma un tassello di un mosaico più ampio: WFP e UNICEF documentano fame e malnutrizione; l’OMS denuncia evacuazioni insufficienti; OCHA registra spostamenti forzati e infrastrutture paralizzate; la Corte dell’Aia scandisce obblighi giuridici puntuali. L’insieme racconta una tregua che riduce il rumore delle armi, ma non ripristina la vita. È in questo scarto – tra il camion che entra e il rubinetto che resta a secco, tra l’ambulanza che parte e il paziente che muore in attesa – che l’accusa di “genocidio per condizioni di vita” trova il suo terreno più controverso e, al tempo stesso, più verificabile.
Per chi legge, il punto non è il numero dei camion, ma il numero delle vite rese davvero possibili. E se la risposta continua a oscillare vicino allo zero, la tregua somiglia più a una pausa dell’audio che a un cambio di brano.
Edicola digitale
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.