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27 Novembre 2025 - 16:41
Ivrea dice addio al “campo nomadi”. Parte il piano per smantellare il campo dei sinti di via della Fornace
Questa mattina, nella sala "dorata" del Comune di Ivrea si è parlato dei "sinti" di via delle Fornaci. Davanti ai giornalisti il sindaco Matteo Chiantore, l’assessora alle Politiche sociali Gabriella Colosso e Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio. Sul tavolo, un progetto che promette il "superamento del campo", non la sua semplice chiusura, attraverso l’applicazione del modello Ma.REA, un progetto che in Italia è già stato utilizzato con successo da altre città.
Il sindaco, in premessa, ha chiarito, anche per disinnescare un equivoco che a Ivrea è diventato quasi un caso nazionale, che il progetto non riguarda la villa abusiva di Giovanni Lagaren, finita nelle telecamere di Fuori dal coro e su Rete 4, con i giornalisti inseguiti, insultati, spintonati mentre provavano a raccontare un pezzo di città che nessuno voleva vedere.

«Per quella si seguirà un altro percorso», ha precisato Matteo Chiantore, marcando la differenza tra un intervento che nasce dal rispetto dei diritti e della dignità delle persone e un dossier che attiene alla legalità edilizia, agli abusi, alle responsabilità individuali. Due piani distinti: da una parte l’abusivismo e la cronaca giudiziaria, dall’altra la scelta politica di mettere mano a uno degli insediamenti monoetnici più antichi del Piemonte.
La macroarea di strada Cascina Forneris – via della Fornace, infatti, non è un “campo” nato ieri. È un pezzo di città che prende forma nel 1975, quando l’Italia sceglie di affrontare la presenza delle comunità rom e sinte con un modello abitativo che non ha eguali in Europa: quello dei “campi nomadi”. A Ivrea, come in buona parte del Nord Italia, quella scelta si traduce nella creazione di aree dedicate esclusivamente a loro, pensate per accogliere roulotte e case mobili in nome di una presunta “cultura del nomadismo” che non è mai esistita. Qui oggi vivono circa 78 persone, famiglie radicate, intrecci di parentela consolidati, bambini che hanno sempre e solo conosciuto quella porzione di città come il proprio orizzonte quotidiano. Un insediamento regolato – nella sostanza – sulla base dell’appartenenza etnica dei suoi abitanti.
La conferenza stampa di oggi non è stata solo la presentazione di un progetto tecnico, ma anche la presa d’atto che quel modello è arrivato al capolinea. Per oltre trent’anni l’Italia ha costruito e gestito “campi nomadi” di ogni tipo – baraccopoli, microaree, macroaree, villaggi attrezzati – sentendosi ripetere dagli organismi internazionali la stessa accusa: un sistema che produce segregazione, non inclusione. Non a caso, nel 2010, l’European Roma Rights Centre ha definito il nostro Paese “la nazione dei campi”. Oggi i numeri raccontano di un cambiamento in corso: a fronte di una popolazione rom e sinta stimata tra le 120 e le 150 mila persone, solo circa 11 mila vivono ancora in insediamenti monoetnici formali o informali. Sono una minoranza, ma è proprio su di loro che si concentrano le forme più estreme di deprivazione abitativa, sanitaria, lavorativa, scolastica.
Ivrea, con il percorso annunciato in conferenza stampa, ha deciso di essere parte della nuova stagione, quella che non parla più di “chiudere i campi” ma di superarli. Gabriella Colosso ha insistito su questo punto: non si tratta di sgomberare un’area e lasciare le famiglie al proprio destino, ma di accompagnarle, nell'arco di un paio d’anni, verso soluzioni abitative dignitose, miste, non segreganti. "Non è una prova di forza, ma un investimento di responsabilità collettiva", è il messaggio che filtra dalle sue parole. Per farlo, il Comune ha scelto di non camminare da solo e ha chiesto all’Associazione 21 luglio di mettere a disposizione il modello Ma.REA, acronimo di “Mappare e Realizzare Comunità”, uno strumento pensato proprio per guidare le amministrazioni locali dentro processi di superamento strutturale dei “campi rom”.
Al centro di Ma.REA ci sono tre idee forti, che Carlo Stasolla ha riassunto con la calma di chi queste battaglie le porta avanti da una vita: "abbandonare l’approccio etnico, favorire la partecipazione diretta dei residenti, lavorare sulle relazioni tra il singolo e il sistema sociale che lo circonda". Tradotto: niente scorciatoie, niente progetti calati dall’alto, niente “pacchetti sicurezza” o promesse da campagna elettorale. Il percorso parte dall’ascolto e dalla mappatura della comunità: chi abita nella macroarea, che documenti ha, che lavoro fa, che condizioni di salute vive, che legami ha con le scuole, con i servizi, con il quartiere. Gli operatori di 21 luglio stanno già entrando in via della Fornace con questionari, colloqui, incontri informali. Non per schedare, ma per costruire quella fotografia precisa senza la quale ogni discorso sul futuro resterebbe astratto.
In parallelo, vengono coinvolti tutti gli attori che ruotano intorno all’insediamento: dirigenti scolastici, insegnanti, assistenti sociali, forze dell’ordine, associazioni del territorio, parrocchie, uffici comunali. È da questo intreccio di sguardi che dovrà nascere il Gruppo di Azione Locale, una sorta di cabina di regia allargata in cui siederanno tanto i rappresentanti della comunità sinta quanto quelli delle istituzioni. "Superare un campo non è una questione privata tra il Comune e poche famiglie: riguarda la città intera, i suoi equilibri, le sue paure, la sua capacità di includere."
Per questo il processo è pensato come un percorso di medio periodo: nei prossimi mesi il Gruppo lavorerà alla stesura di un Piano d’Azione Locale, con obiettivi, tempi, strumenti, costi, responsabilità definite. Sarà poi la Giunta, o il Consiglio comunale, ad approvarlo formalmente, assumendosi davanti alla città l’impegno politico di portarlo fino in fondo.
Una volta fissata la rotta, comincerà la parte più delicata: trovare i fondi, incrociare gli strumenti già esistenti (dall’edilizia residenziale pubblica ai contributi per l’affitto, dai progetti sociali ai fondi europei), evitare di inventare nuovi “ghetti” magari più piccoli ma ugualmente separati. "La sfida - insiste 21 luglio - non è spostare un campo da un luogo all’altro, ma uscire definitivamente dalla logica del campo...".

Per questo Ma.REA chiede il sostegno concreto alle famiglie nelle procedure ordinarie: domande per le case popolari, iscrizioni scolastiche, percorsi di inserimento lavorativo, tutela della salute. Il "superamento" ha senso solo se si accompagna a un miglioramento reale delle condizioni di vita e a un ingresso a pieno titolo nei quartieri, nei condomìni, nelle scuole che tutti gli altri abitano da sempre.
A raccontare perché questa scelta di metodo non è un dettaglio è la storia di Carlo Stasolla. Originario del Frusinate, poco più che ventenne, decise di lasciare la propria vita “normale” per andare a vivere in un campo rom alla periferia di Roma.
Ci è rimasto 14 anni, condividendo baracche, roulotte, freddo d’inverno e caldo soffocante d’estate, precarietà quotidiana, sgomberi annunciati e sgomberi a sorpresa.
Da quell’esperienza è nato il suo impegno: prima come operatore, poi come studioso delle politiche sui rom, infine come fondatore e presidente di 21 luglio, organizzazione che oggi è riconosciuta a livello nazionale e internazionale come una voce autorevole sui diritti delle comunità rom e sinte.
Stasolla ha scritto libri e rapporti, tra cui “Sulla pelle dei rom”, una delle prime analisi sistematiche della gestione dei campi nella Capitale, e ha fatto parte di organismi istituzionali come la Commissione Jo Cox contro il razzismo e la xenofobia. Nel 2017 è stato scelto come Fellow di Ashoka, rete mondiale di imprenditori sociali, e nel 2025 il Presidente della Repubblica lo ha nominato Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per il suo impegno a fianco delle persone in condizioni di segregazione estrema. Una traiettoria che spiega anche la radicalità di certe scelte dell’associazione: 21 luglio non accede a finanziamenti pubblici italiani, per poter criticare senza condizionamenti quel sistema dei “campi” da cui ora molti Comuni stanno cercando di uscire.
Nel suo intervento, Stasolla ha ricordato che l’Italia resta comunque un unicum europeo: nessun altro Paese ha costruito e finanziato per decenni, su scala così ampia, insediamenti abitativi monoetnici pensati espressamente per i rom e i sinti. Allo stesso tempo ha sottolineato come, dal 2018 in avanti, qualcosa sia cambiato: non si costruiscono più nuovi campi e i numeri parlano di una riduzione significativa delle persone costrette a viverci, passate da circa 40 mila nel 2010 a poco più di 10 mila oggi. "Segno che il superamento non è un sogno buonista ma un processo già in corso, che può diventare irreversibile se le amministrazioni locali, come sta facendo Ivrea, scelgono la strada giusta e la percorrono fino in fondo."
Un pezzo essenziale di quel percorso, ha ammonito, si chiama comunicazione. Perché in Italia basta pronunciare le parole “rom” o “sinti” per accendere paure, pregiudizi, slogan di ogni colore politico. Ma.REA prevede per questo una vera e propria campagna comunicativa attorno al superamento dei campi, fatta di momenti pubblici, assemblee, materiali informativi, lavoro con i media locali. L’obiettivo non è “convincere” tutti a prescindere, ma "raccontare passo dopo passo cosa si sta facendo, quali vantaggi produce per la collettività, quali diritti restituisce alle famiglie coinvolte". È anche un modo per ricordare un dato che i numeri certificano con chiarezza: la maggioranza dei rom e sinti in Italia è cittadina italiana, vive in case normali, lavora, manda i figli a scuola. Solo una piccola parte vive negli insediamenti monoetnici e, tra questi, la netta maggioranza ha il passaporto italiano. A Ivrea, i sinti della macroarea di via della Fornace non sono “ospiti” di passaggio, ma parte del tessuto sociale locale, schiacciata però da decenni dentro un perimetro costruito proprio sul loro essere “sinti”.
Cosa cambierà, concretamente, per quelle famiglie? Oggi è ancora presto per dirlo con dettaglio, ma la direzione è tracciata: diverse soluzioni abitative – edilizia pubblica, affitti sul mercato privato con sostegni mirati, percorsi di autonomia – dovranno essere studiate caso per caso, tenendo conto delle storie familiari, dei redditi, della composizione dei nuclei, dei legami con il territorio. "L’idea di fondo è semplice e rivoluzionaria allo stesso tempo: smettere di progettare spazi “per i sinti” e cominciare a progettare insieme a loro il modo di abitare la città come tutti gli altri". In questo quadro, la macroarea di via della Fornace smetterà gradualmente di essere un luogo “a parte” e diventerà, nel giro di un paio d’anni, un capitolo chiuso ma non rimosso della storia eporediese.
Resterà, certo, la questione della villa abusiva di Giovanni Lagaren, che seguirà il suo percorso amministrativo e giudiziario. Ed è significativo che il sindaco Chiantore l’abbia voluta tenere fuori dalla narrazione di oggi: da un lato c’è l’obbligo di far rispettare le regole, dall’altro il dovere di rimediare a scelte politiche e urbanistiche che hanno trasformato la differenza in segregazione. Confondere i due piani sarebbe comodo, ma profondamente ingiusto. Il superamento della macroarea sinta non è una concessione, bensì il tentativo di rimettere finalmente sullo stesso piano, in termini di diritti, chi da troppo tempo vive ai margini.
"Metto le mani avanti - ha aggiunto Chiantore - Non ci sarà alcuna agevolazione nell'assegnazione di alloggi ATC. Evitiamodi fare polemiche su questo fronte...".
A conferenza stampa conclusa, restano sul tavolo le cartelline con il logo del Comune e quello di 21 luglio, qualche numero appuntato in fretta, le domande dei cronisti e, soprattutto, la sensazione che oggi a Ivrea sia stata aperta una porta.
Una porta che immette in un corridoio lungo, con ostacoli, paure, resistenze, ma alla fine del quale c’è una città dove non esistono più quartieri riservati solo ai sinti, dove l’indirizzo di casa non coincide con un’etichetta etnica, dove “campo nomadi” sarà una definizione buona solo per i libri di storia. Sta a Ivrea, da oggi, dimostrare che quel corridoio lo si può percorrere davvero.
L’esperienza dell’Associazione 21 luglio in Piemonte non inizia certamente con Ivrea. Prima della macroarea sinta di via della Fornace, l’organizzazione guidata da Carlo Stasolla ha già accompagnato due Comuni piemontesi in percorsi completi di superamento dei campi rom: Collegno e Asti. Sono due storie diverse, ma entrambe rappresentano la prova concreta che uscire dalla logica dei campi è possibile, a patto che ci sia una volontà politica chiara e un lavoro sociale profondo, capace di coinvolgere famiglie, servizi, scuole e l’intera comunità locale.
A Collegno l’intervento ha riguardato un campo storico, uno di quelli che per anni erano stati percepiti come una presenza “immutabile” nella cintura torinese. Lì vivevano circa settanta persone, nuclei familiari radicati da decenni in un’area che, negli anni, aveva finito per cristallizzare proprio ciò che avrebbe dovuto superare: la separazione, la distanza, la stigmatizzazione. Il Comune, insieme all’Associazione 21 luglio, ha avviato un percorso che non ha nulla a che vedere con sgomberi forzati o operazioni di polizia. Si è partiti dall’ascolto, dalla costruzione di un legame di fiducia, dalla mappatura delle storie individuali e dei legami sociali. Il lavoro è durato due anni e si è concluso con la chiusura definitiva dell’insediamento. Le famiglie non sono state disperse né abbandonate: sono state collocate in abitazioni ordinarie, chi tramite l’edilizia residenziale pubblica, chi attraverso soluzioni in affitto sostenuto, chi grazie a percorsi personalizzati di autonomia. Nessuna ruspa, nessuna tensione, nessuno scontro. Collegno è diventato un caso studio a livello nazionale, presentato perfino alla Camera dei Deputati come esempio di come il superamento dei campi possa essere un atto amministrativo complesso ma possibile, capace di generare inclusione invece di conflitto.
Anche ad Asti il lavoro è stato lungo e meticoloso, rivolto alla baraccopoli di via Guerra 36, un insediamento che da anni rappresentava una delle situazioni di maggiore fragilità della città. Il Comune ha adottato il Piano di Azione Locale – significativamente intitolato “Oltre il Campo” – elaborato insieme all’Associazione 21 luglio. Seguendo il modello Ma.REA, prima sono state raccolte le storie e le necessità delle famiglie, poi sono stati coinvolti tutti gli attori del territorio: scuole, servizi sociali, forze dell’ordine, associazioni. Si è costruito un progetto condiviso che prevedeva, anche qui, soluzioni abitative dignitose per ogni nucleo, calibrate sulle reali possibilità dei beneficiari. Nel settembre 2025 l’area è stata dichiarata ufficialmente chiusa: la baraccopoli è stata svuotata senza interventi traumatici e tutte le famiglie sono state accompagnate verso una nuova stabilità abitativa. La stampa locale ha definito la chiusura “la madre di tutte le operazioni di superamento”, proprio per la sua natura pacifica e per il fatto che il Comune, liberandosi dei costi di gestione del campo, poteva reinvestire risorse in politiche sociali più efficaci.
Rom e Sinti appartengono a un’unica grande famiglia linguistica e culturale, quella dei popoli romaní, la cui storia non nasce in Europa ma molto più lontano, nel subcontinente indiano. Le ricerche linguistiche e genetiche convergono: la loro lingua originaria affonda le radici nelle lingue indo-arie e la migrazione verso l’Europa iniziò secoli fa, tra l’alto Medioevo e l’XI secolo. Arrivarono attraverso il Medio Oriente, poi nei Balcani, e da lì si diffusero lentamente in tutta Europa, dividendosi in gruppi diversi, ciascuno con una propria storia, una propria lingua, propri percorsi di insediamento.
La differenza principale tra Rom e Sinti è storica e geografica: i Rom, nella maggior parte dei casi, si sono diffusi soprattutto nell’Europa orientale e meridionale — Balcani, Grecia, Albania, Romania — e da lì in Italia, soprattutto nelle regioni del Centro e del Sud; i Sinti, invece, hanno radici più antiche nell’Europa centro-settentrionale e la loro presenza nel Nord Italia è attestata almeno dal XV secolo. Questo non significa che “i Rom stanno al Sud e i Sinti stanno al Nord” in senso rigido e schematico, ma che le due comunità hanno seguito vie migratorie completamente differenti. In Piemonte, ad esempio, i Sinti piemontesi costituiscono uno dei gruppi più antichi e più radicati d’Italia: vivono qui da secoli, parlano una varietà linguistica — il sinto piemontese — che incorpora strutture e parole del piemontese stesso, segno evidente di un’integrazione sedimentata nel tempo. Non sono un popolo di passaggio, non sono comunità erranti: sono famiglie italiane, con cognomi riconoscibili, generazioni che hanno vissuto nelle stesse città per secoli.
A rendere complicata e dolorosa la loro storia europea e italiana è stata la persecuzione. Durante il nazismo, i popoli romaní furono considerati “asociali”, “antisociali” o “razze inferiori”, perseguitati come gli ebrei e deportati nei campi di sterminio. Il genocidio dei Rom e dei Sinti, conosciuto come Porrajmos o Samudaripen, portò alla morte di centinaia di migliaia di persone in tutta Europa. È un capitolo della storia europea rimasto ai margini per decenni, tanto silenzioso quanto devastante. Anche in Italia i Rom e i Sinti furono perseguitati: con il fascismo subirono schedature, confini, internamenti, deportazioni verso i campi del Reich. Tutto questo non ha prodotto nomadismo; ha prodotto spostamenti forzati, frammentazioni familiari, strategia di sopravvivenza.
Ed è qui che nasce la grande falsità del “nomadismo”. I gruppi romaní non sono mai stati nomadi per cultura. La loro mobilità, quando c’è stata, è sempre stata una risposta alle persecuzioni e alle espulsioni, un meccanismo di protezione e fuga, mai una scelta identitaria. Lo confermano gli storici, gli antropologi, i linguisti: il nomadismo come tratto culturale dei Rom e dei Sinti è una narrazione costruita dall’esterno, soprattutto nel Novecento. In Italia, soprattutto dagli anni Settanta e Ottanta, alcune regioni — tra cui il Piemonte — approvarono leggi che dichiaravano di “tutelare la cultura nomade”, come se il nomadismo fosse l’essenza delle comunità romaní. In realtà quelle leggi servirono per creare campi nomadi, cioè insediamenti monoetnici che separavano Rom e Sinti dal resto della popolazione, collocati ai margini delle città, in deroga agli standard abitativi, lontano dai servizi e dalle opportunità. Il “nomade” diventò così una categoria amministrativa, una giustificazione politica, non un’identità reale.
I Sinti piemontesi sono la prova vivente che quel mito è una costruzione. Eppure, per decenni, proprio loro sono stati confinati in macroaree e microaree con la scusa della loro “cultura nomade”. Una cultura che non esiste, che non è mai esistita, se non negli atti amministrativi e nella propaganda di un Paese che non sapeva — o non voleva — fare i conti con il proprio razzismo istituzionale.
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