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Da Ivrea alla Palestina: Berruto allena una nazionale che il mondo ha dimenticato

Dieci anni dopo Rio riapre la sua borsa impolverata e vola a Ramallah: guida una nazionale ferita, con quattro giocatori uccisi e oltre 800 atleti palestinesi caduti sotto le bombe. Lo sport come ultimo respiro di libertà.

Da Ivrea alla Palestina: Berruto allena una nazionale che il mondo ha dimenticato

Mauro Berruto

Lo hanno mostrato così, nel servizio del Tg1, senza filtri, senza il solito racconto appannato, ma nella nitidezza di un’immagine che non lasciava spazio all’interpretazione: Mauro Berruto che entra in una palestra di Ramallah come se quel parquet fosse sempre stato casa sua. Il passo è lo stesso di una volta, lo sguardo pure. Eppure sono passati dieci anni da quando aveva deciso, con una lucidità che aveva sorpreso molti, di lasciare le panchine. Era il 29 luglio 2015. Lo spogliatoio era quello del Maracanazinho di Rio. Una borsa chiusa in fretta, un cerchio perfetto che si chiudeva. Nessuno immaginava che sarebbe rimasta chiusa per un decennio intero — neppure lui. E infatti, pochi giorni prima di partire per la Palestina, quella borsa l’ha riaperta e ci ha trovato dentro esattamente ciò che serviva a raccontare la verità di questo momento: «la mia lavagnetta, il foglio dell’ultima partita contro la Polonia, quel discorso prepartita. Non mi serve altro».

Nel servizio del Tg1, andato in onda mercoledì 26 novembre, i ragazzi palestinesi gli corrono incontro con la gioia di chi sa di stare per vivere qualcosa di irripetibile. In quella palestra luminosa, piena di energia, non si racconta solo un allenamento: si racconta un ritorno. E non uno qualsiasi. Un ritorno che lui stesso ha definito, su Facebook, «la sintesi di due vite, fatte di sport e di politica». Il perché è scritto in ogni movimento, in ogni sorriso, in ogni dialogo che il Tg1 ha mostrato: Berruto è lì per allenare davvero, ma anche per testimoniare. È lì perché oltre a dirlo, come scrive, bisogna provare a farlo.

E lo sta facendo nel posto «più simbolico e fragile» che potesse immaginare. Su invito del Comitato Olimpico Palestinese e della Federazione Palestinese di Pallavolo, ha accettato di diventare, per qualche giorno, il Commissario Tecnico della nazionale maschile palestinese. Una squadra che porta addosso il peso di un dolore enorme. Una squadra che, oltre a tutto il resto, piange quattro giocatori e un allenatore morti il 19 giugno: Ibrahim Qusai’a, Hassan Abu Zaiter, Ahmad Al-Mufti e Wissam Jadallah, lo stesso coach che li guidò ai campionati arabi del 2016. E sono solo una goccia nel mare: oltre 800 atleti palestinesi risultano uccisi nei bombardamenti. Una cifra che fa tremare i polsi e racconta più di mille analisi geopolitiche.

Dentro questo scenario, Berruto arriva con il suo stile: sobrio, competente, umano. Al Tg1 si vede mentre corregge un bagher, spiega il tempo esatto del salto, allarga le braccia per dimostrare come leggere un muro. È lui, quello di sempre: l’uomo capace di far convivere la geometria perfetta dello sport con la fragilità assoluta dell’essere umano. Una qualità che ha maturato in 25 anni di panchine, dalla nazionale finlandese alla nazionale italiana, dalle Olimpiadi ai mondiali, passando per la direzione tecnica del tiro con l’arco. Poi la politica, certo. La Scuola Holden, l’insegnamento di “sport e politica” all’Università di Genova, l’impegno parlamentare. Ma sotto tutto questo, sempre e comunque, lo sport come modo di stare al mondo.

E proprio la politica ora cammina al suo fianco, letteralmente. Perché in Palestina Berruto non è arrivato da solo. Con lui ci sono Laura Boldrini, Ouidad Bakkali, Sara Ferrari, Valentina Ghio e Andrea Orlando. Una delegazione trasversale che crede nell’idea — ormai quasi rivoluzionaria — che lo sport non debba limitarsi a essere spettacolo, ma debba essere linguaggio. Linguaggio di pace, dialogo, riconciliazione. «Partirò per questo viaggio nel significato più profondo dello sport», ha detto Berruto, «convinto che anche qui un campo da gioco possa essere luogo di coraggio e speranza nel futuro».

Lo si vede mentre parla con gli atleti. Non li accarezza con la retorica — li allena davvero. Spiega, mostra, corregge. Disegna esercizi, imposta ritmi, introduce un metodo. Oltre agli allenamenti quotidiani, sta tenendo corsi di formazione per allenatori e sportivi palestinesi, incontri istituzionali sullo sviluppo dello sport e sulla diplomazia sportiva. Sta contribuendo a mettere le basi di un piccolo “college tecnico”, un embrione che solo il tempo dirà se diventerà qualcosa di più grande. Ma là dove c’è una palestra, là dove c’è un pallone che vola, là dove ci sono ragazzi che ascoltano, Berruto sa che c’è sempre, comunque, un inizio.

E qui si innesta l’altro pezzo della sua vita: l’Italia. E più precisamente Ivrea. Perché Berruto è un volto conosciuto nel Canavese. Eletto proprio qui, ha portato nel territorio la stessa idea che oggi porta in Palestina: lo sport come diritto. A Ivrea presiede la Morenic Sport Commission, una rete di comuni e associazioni che sta trasformando l’Anfiteatro Morenico nella più grande palestra naturale d’Europa. Cinquecento chilometri di percorsi, sentieri, laghi, colline, progetti per bambini e anziani, iniziative di salute pubblica, formazione per tecnici, servizi per comunità che spesso non hanno altro. Non è un caso che proprio da Ivrea sia partita la sua battaglia per riscrivere l’art. 33 della Costituzione. E non è un caso che Ivrea sia, oggi, la lente attraverso cui leggere ciò che sta facendo a Ramallah.

Ivrea e Palestina. Due mondi che non potrebbero essere più diversi. Eppure, guardando il servizio del Tg1, sembra che un filo invisibile unisca quei ragazzi palestinesi ai camminatori, ai corridori, ai giovani delle società sportive eporediesi. Come se lo stesso principio — lo sport come respiro — valesse dappertutto. «Mi piacerebbe pensare, come diceva Mandela, che lo sport abbia il potere di cambiare il mondo», dice Berruto. «Non sono sicuro che sia così. Ma sono certo che ognuno debba fare bene ciò che sa fare per cambiare in meglio anche un solo pezzo di mondo.»

Lui sa allenare. Sa costruire. Sa educare. E sta facendo questo, nel posto più simbolico e fragile che esista.

Il Tg1 finisce con un’inquadratura perfetta: lui con un pallone tra le mani, la squadra che lo ascolta in silenzio, la rete che divide e unisce allo stesso tempo. E si capisce che, per quanto piccola, questa storia ha un senso più grande. Non cambierà il mondo.
Ma cambierà il modo in cui questi ragazzi guarderanno il mondo.
E forse, in un giorno così, è davvero abbastanza.

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