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Sud-est asiatico sommerso: 33 morti, città isolate e ospedali allagati tra Thailandia e Malesia

Dai reparti invasi dall’acqua dell’ospedale di Hat Yai ai 45.000 evacuati tra Thailandia e Malesia, la più violenta ondata di piogge degli ultimi decenni travolge confini, infrastrutture e vite. Previsioni ancora in peggioramento: “Il piano terra è diventato un mare”.

Sud-est asiatico sommerso: 33 morti, città isolate e ospedali allagati tra Thailandia e Malesia

Sud-est asiatico sommerso: 33 morti, città isolate e ospedali allagati tra Thailandia e Malesia

Il piano terra è diventato un mare”. Nel sud della Thailandia l’acqua sale come una sentenza, trascina con sé case, ospedali e vite: decine di morti, migliaia di evacuazioni, intere città trasformate in lagune improvvisate che cancellano punti di riferimento e confini amministrativi. Tra Thailandia e Malesia il bilancio provvisorio parla di 33 vittime e circa 45.000 persone costrette a lasciare le proprie abitazioni, mentre le previsioni indicano che il peggio potrebbe non essere ancora passato. Nelle corsie dell’ospedale pubblico di Hat Yai, nel cuore della provincia di Songkhla, la scena è surreale: una sirena che si interrompe, un monitor che riprende a vibrare a ritmo incostante, l’acqua che avanza lenta e poi repentina, circondando letti e carrelli, lambendo le pareti bianche fino a esondare nelle stanze come un nemico silenzioso. Qui, dove convergono i casi più gravi di tutto il sud thailandese, circa 600 pazienti — cinquanta dei quali in terapia intensiva — sono rimasti intrappolati per ore, isolati da qualunque accesso via terra. L’ordine arrivato nel cuore della notte è stato minimale e definitivo: “Tenere in vita tutti”. Le pale degli elicotteri militari hanno fatto da colonna sonora all’unico varco rimasto aperto.

Il bilancio fornito dal governo thailandese resta provvisorio. Le 33 vittime accertate — tra frane, onde di piena ed elettrocuzioni — potrebbero non essere il dato finale. Lo ha spiegato il portavoce governativo Siripong Angkasakulkiat dopo la riunione del Flood Crisis Operations Centre a Government House, a Bangkok, ricordando che molte aree interne sono ancora irraggiungibili. Almeno nove province thailandesi risultano colpite, mentre sul lato malese l’acqua ha travolto in sequenza Kelantan, Perak, Kedah, Perlis, Penang, Terengganu e Selangor, costringendo migliaia di persone a un esodo forzato verso i centri di accoglienza. Nel caos delle statistiche, un dato emerge su tutti: a Hat Yai, in un solo giorno, sono caduti 335 millimetri di pioggia, il valore più alto “degli ultimi 300 anni” per l’area urbana. Una cifra che basta a raccontare da sola la fragilità di un sistema idraulico impreparato a volumi d’acqua di questa scala.

I decessi si concentrano in sette province thailandesi: Nakhon Si Thammarat (almeno 9), Songkhla (6), Pattani (5), Yala (5), Phatthalung (4), Trang (2), Satun (2). Le cause raccontano la violenza dell’evento: annegamenti in colate improvvise, frane, cortocircuiti. È uno schema noto nel sud peninsulare, dove i temporali monsonici possono trasformare un torrente in una lama d’acqua in pochi minuti. Le autorità insistono su un punto: evacuare senza esitazioni, lasciare le case nelle zone rosse, affidarsi ai soccorritori. L’ospedale di Hat Yai è il simbolo più evidente della portata di questa emergenza. Il primo piano è completamente sommerso, reparti e depositi fuori uso, la logistica interna interrotta. Le attività mediche proseguono ai piani superiori grazie a generatori sollevati a forza sui tetti e a un ponte aereo continuo che trasferisce i casi più critici verso strutture meno esposte. A supporto, la portaerei HTMS Chakri Naruebet è stata riconvertita in base di coordinamento, mentre l’aeroporto di Don Mueang, a Bangkok, funge da hub per materiali e squadre.

Nel turbine delle prime ore sono circolate voci su un aumento anomalo dei decessi all’interno dell’ospedale. La direzione del Hat Yai Hospital ha diffuso una nota per arginare speculazioni e allarmismi: nella camera mortuaria erano presenti 27 salme prima dell’alluvione, e tra il 22 e il 25 novembre se ne sono aggiunte 14, numeri ritenuti compatibili con le oscillazioni di un grande ospedale provinciale. Un dettaglio che dimostra come, in emergenza, la trasparenza sia parte integrante della gestione sanitaria, non un adempimento accessorio.

Intanto la Malesia affronta un’emergenza parallela. Tra il 24 e il 25 novembre gli evacuati hanno oscillato tra 11.000 e oltre 13.000 persone, con la regione di Kelantan particolarmente colpita. Decine di PPS — centri di accoglienza temporanei — ospitano famiglie e anziani mentre la protezione civile malese mantiene un monitoraggio continuo in vista di nuove precipitazioni. L’acqua non conosce frontiere: i bacini si riversano gli uni sugli altri, i terreni saturi non assorbono più nulla, i fiumi escono dagli argini. Gli analisti parlano di un sistema regionale che reagisce in maniera sincronizzata a impulsi sempre più intensi, con infrastrutture già deboli che cedono al primo colpo.

Secondo il Ministero dell’Interno thailandese, oltre 2,7 milioni di persone sono state toccate dall’alluvione e quasi un milione di abitazioni ha subito danni: interni allagati, cedimenti, blackout preventivi per evitare elettrocuzioni. In molte zone ci si muove solo con barche o mezzi militari ad assetto alto. Le immagini delle famiglie sui tetti, dei bambini passati da una finestra all’altra sotto la pioggia martellante, sono diventate la narrazione visiva della settimana. La Royal Thai Army e la Royal Thai Navy hanno schierato elicotteri, mezzi anfibi e imbarcazioni; 20 elicotteri e 200 barche sono operative nelle aree più colpite, mentre personale sanitario e volontari distribuiscono acqua potabile, coperte, kit igienici e alimenti a lunga conservazione. La priorità è duplice: garantire le cure salvavita e prevenire un’ondata di malattie idrotrasmesse — leptospirosi, gastroenteriti, dengue, infezioni cutanee — aggravata dal collasso dei sistemi di drenaggio.

La dinamica meteorologica è nota agli esperti: tra ottobre e gennaio il sud thailandese e la penisola malese vivono l’apice del monsone di nord-est. Ma quest’anno, spiegano i meteorologi, l’intensità e la concentrazione delle precipitazioni hanno superato ogni previsione, frutto di un mix di monsone, linee di convergenza e disturbi tropicali che hanno incanalato bande di pioggia persistenti sopra il corridoio costiero tra Songkhla e Satun. Un sistema urbano come Hat Yai, cresciuto rapidamente su terreni alluvionali e con canali di drenaggio al limite, non ha retto l’urto. È la conferma pratica di ciò che gli esperti ripetono da anni: eventi più brevi ma più violenti sono coerenti con gli effetti del cambiamento climatico nei tropici. Non è una questione ideologica, ma ingegneristica.

Nel frattempo la battaglia informativa resta aperta. Le emergenze generano un rumore di fondo fatto di numeri non verificati, audio sospetti, immagini decontestualizzate. Il chiarimento dell’ospedale di Hat Yai sulle salme presenti in obitorio — 27 più 14 — è un esempio di come la gestione della trasparenza possa contenere il panico. Con blackout intermittenti e connessioni fragili, le istituzioni sanitarie invitano a seguire soltanto canali ufficiali e a segnalare contenuti dubbi. Una pratica che vale anche per chi osserva da lontano: controllare, incrociare, verificare.

Le prossime 48-72 ore saranno decisive. Il Dipartimento meteorologico thailandese prevede ulteriori piogge e temporali; alcune aree mostrano un lento deflusso, ma la possibilità di nuove frane e flash flood resta concreta. Gli evacuati potrebbero aumentare, e i rientri saranno graduali. Al confine, il sistema di centri PPS è pronto a ospitare nuovi nuclei familiari, mentre a Kelantan la protezione civile parla di una situazione “sotto controllo”, condizionata però da aggiornamenti costanti.

Intanto, dietro i numeri si muovono le storie. Una madre che scende le scale dell’ospedale con il neonato stretto al petto mentre l’acqua le arriva alla vita. Un infermiere che rimane in servizio per 36 ore consecutive perché il collega non riesce a raggiungere l’edificio. Un commerciante che osserva la propria bottega galleggiare via. Dai tetti qualcuno agita un drappo rosso al passaggio dell’elicottero, come un segnale di resa e resistenza allo stesso tempo.

Le domande restano molte. Il bilancio dei morti è definitivo? No: è solo una fotografia parziale al 26 novembre 2025. Quante persone hanno lasciato la propria casa? Circa 45.000, includendo i flussi variabili della Malesia. L’ospedale di Hat Yai è operativo? Sì, ma con gravi limitazioni. Perché proprio lì? Perché 335 millimetri in un giorno sono un colpo che nessuna infrastruttura urbana può assorbire senza cedimenti.

In un contesto dove gli eventi estremi diventano la norma, il ruolo dell’informazione è decisivo. Raccontare senza spettacolarizzare, dare coordinate, nominare responsabilità, indicare fonti verificate. Le autorità sperano in un miglioramento graduale, ma sanno che la soglia di preparazione va alzata. Quando l’acqua si ritirerà da Hat Yai, resteranno attrezzature da sanificare, conti da chiudere, famiglie da assistere e interi reparti da ricostruire. Resterà soprattutto l’immagine di una città che, nel momento più duro, ha scelto di non lasciare indietro i più fragili.

Per ora parlano i numeri: 33 morti, nove province thailandesi e sette-otto stati malesi coinvolti, 45.000 evacuati, un ospedale con il primo piano sommerso e 600 pazienti da proteggere. Il resto lo diranno le prossime ore.

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