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26 Novembre 2025 - 17:25
Fatih Altaylı
La sedia è ancora lì, al centro dell’inquadratura. Vuota. Da cinque mesi quella assenza è diventata un codice, un linguaggio muto: lettere lette dall’assistente, monologhi affidati a una voce prestata, ospiti che si rivolgono a chi non può rispondere. È così che il programma YouTube del veterano Fatih Altaylı ha provato a resistere, con una ostinazione che sa di dissidenza civile, al silenzio imposto dal carcere di Silivri, oggi ribattezzato Complesso penitenziario di Marmara, dove il giornalista è rinchiuso da giugno. Il 26 novembre 2025, un tribunale di Istanbul ha trasformato quella sedia in una sentenza: quattro anni e due mesi per “aver minacciato” il presidente Recep Tayyip Erdoğan, dopo un commento in cui Altaylı evocava il destino di alcuni sultani ottomani strangolati o deposti. Il giornalista respinge ogni accusa di istigazione alla violenza e annuncia ricorso; nel frattempo rimane dietro le sbarre, in attesa dell’appello.
La frase incriminata risale a un video pubblicato il 20 giugno 2025, all’indomani di un sondaggio che attribuiva a oltre il 70% dei turchi l’opposizione a una ipotetica “presidenza a vita” per Erdoğan. “Guardate alla storia di questa nazione”, diceva Altaylı: “è una nazione che ha strangolato il suo sultano quando non lo voleva più; più d’un sultano è stato assassinato, strangolato o fatto sembrare suicida”. Per l’accusa, quelle parole sarebbero una minaccia; per la difesa, un semplice riferimento storico utilizzato per argomentare che i cittadini “amano l’urna” e non accettano concentrazioni di potere. La Turchia contemporanea, però, è un Paese in cui la storia può diventare capo d’imputazione.
Negli atti citati dai media turchi, gli inquirenti richiamano una formulazione combinata degli articoli 310/2 e 106/1 del Codice penale turco—ipotesi di minaccia nel contesto dell’“offesa al presidente”—anche se la tipizzazione non è stata comunicata in modo uniforme dalle testate, segno di un’opacità giuridica che rende ancora più complesso decifrare il caso. Le organizzazioni per la libertà di stampa lo sottolineano da settimane: attenzione alla cornice normativa, perché il nodo resta uno solo, e non è tecnico—quelle parole, per la procura, costituirebbero una minaccia “pubblicamente diffusa” via YouTube.
Il 22 giugno 2025 Altaylı viene fermato a Istanbul; il giorno successivo un giudice dispone l’incarcerazione preventiva. È un colpo durissimo al fragile ecosistema mediatico indipendente che negli ultimi anni ha trovato nei canali digitali, e in YouTube in particolare, l’unico spazio non ancora del tutto assorbito dai conglomerati pro-governativi. Il primo dibattimento si apre il 3 ottobre, senza concessione della libertà provvisoria; il programma prosegue come può, trasformandosi in una forma di “prison journalism”, finché non arrivano limitazioni e sospensioni. La seconda udienza sfocia nel verdetto del 26 novembre: quattro anni e due mesi, senza sospensione, e custodia cautelare confermata. In aula Altaylı insiste: non ha mai minacciato nessuno in oltre quarant’anni di professione, non appartiene a organizzazioni, non ha alcun passato di violenza. “Perché il presidente dovrebbe aver paura di me?”, domanda, con una punta di ironia verso l’apparato di sicurezza che circonda Erdoğan. Al suo fianco siedono lo storico İlber Ortaylı, il giornalista Murat Bardakçı e il geologo Celal Şengör, presenze simboliche in un procedimento che ha già assunto un peso politico enorme. In aula è presente anche l’avvocato del presidente.

Alla prima accusa se ne aggiunge un’altra, aperta in agosto: “diffusione di informazioni fuorvianti” potenzialmente lesive della sicurezza nazionale, un reato introdotto nella stagione normativa seguita al 2016, applicato sempre più di frequente a giornalisti, attivisti e utenti dei social. In parallelo, le autorità bloccano l’accesso al canale YouTube di Altaylı, che contava oltre 1,6 milioni di iscritti. Eppure, persino dalla cella, il giornalista ha continuato a raggiungere il pubblico attraverso lettere lette in video, sempre davanti a quella stessa sedia diventata icona della parola negata.
Il caso Altaylı è una radiografia nitida del sistema mediatico turco: un ambiente polarizzato, in cui i media mainstream sono in larga parte controllati da gruppi vicini al governo o direttamente monitorati da apparati statali, mentre una generazione di giornalisti cerca autonomia sulle piattaforme digitali. In questo contesto s’innescano i conflitti tra libertà d’espressione e reati d’opinione come “insulto al presidente”, “propaganda” o “disinformazione”, categorie che lasciano ampi margini interpretativi. Nel World Press Freedom Index 2025 della Reporters sans frontières, la Turchia è al 159° posto su 180.
Le cifre sull’incarcerazione dei giornalisti variano perché diverse sono le definizioni di “operatore dell’informazione”: alcune stime parlano di almeno 11 giornalisti o lavoratori dei media dietro le sbarre al momento della condanna di Altaylı; altre, più ampie, ne contano 17 nell’autunno. Oscillazioni che descrivono un panorama in movimento, fatto di fermi, scarcerazioni e un confine professionale sempre più incerto.
Sul piano giuridico, la contestazione di una “minaccia” al capo dello Stato si sovrappone nella percezione pubblica all’applicazione dell’articolo 299, quello sull’“insulto al presidente”, già utilizzato in centinaia di procedimenti nell’ultimo decennio. Nel caso di Altaylı, la procura imbocca la strada dell’articolo 106/1, con il richiamo all’articolo 310/2 come aggravante legata alla carica della persona offesa—almeno secondo alcune versioni dei media locali—rafforzando l’idea di un messaggio percepito come pericoloso nonostante si tratti, a tutti gli effetti, di un riferimento storico. Una scelta che ha pesato sia sulla custodia cautelare sia sull’entità della pena.
Il 26 novembre 2025 la 26ª Alta Corte criminale di Istanbul pronuncia la condanna. La pena non viene sospesa—benché la legge lo preveda per condanne sotto i cinque anni—e Altaylı resta in carcere. Secondo resoconti di stampa, l’accusa aveva chiesto non meno di cinque anni; la difesa aveva ribadito l’assenza totale di intento minaccioso. “Non ho mai minacciato nessuno. Ho difeso i più deboli durante tutta la mia carriera”, ripete Altaylı di fronte ai giudici.
Il cuore del processo sta in un dilemma che riguarda tutte le democrazie: quando una metafora storica diventa una minaccia? Quando una analogia, anche forte, travalica nel reato? La giurisprudenza turca degli ultimi anni, spesso criticata da organismi internazionali, ha ristretto lo spazio del dibattito politico quando tocca direttamente la figura del presidente, e il caso Altaylı si inserisce in questo solco.
Organizzazioni come il Committee to Protect Journalists hanno definito l’arresto un tentativo di “intimidire una voce influente”, chiedendone la liberazione già a giugno. Dopo la sentenza, il caso diventa un simbolo del clima in cui operano i media non allineati. Dalla parte della difesa si schierano sindacati dei giornalisti, accademici e figure note dell’informazione; dall’altro lato, testate filogovernative insistono sulla natura “controversa” del personaggio e difendono la linea tenuta dai giudici.
Che tutto passi da YouTube non è un dettaglio marginale: in Turchia la piattaforma è ormai un media parallelo, con audience spesso paragonabili—e talvolta superiori—a quelle dei canali televisivi tradizionali. Il canale di Altaylı, con oltre 1,5 milioni di iscritti, era diventato un punto di riferimento per un’opinione pubblica non filtrata. Il blocco imposto dalle autorità è, per molti osservatori, un banco di prova su come lo Stato delimita gli spazi della critica nell’era digitale.
La sentenza arriva in un anno segnato da arresti e processi contro esponenti dell’opposizione, amministratori locali e operatori dell’informazione. Le proteste, le cause penali e le ondate di fermi tra attivisti e giornalisti hanno scandito l’agenda politica. Gli analisti parlano di una tendenza consolidata a utilizzare l’apparato giudiziario come strumento di gestione del dissenso.
Ora si attende l’appello. La difesa annuncia battaglia nei prossimi gradi di giudizio, mentre Altaylı resta in carcere. Il caso continuerà a pesare nel dibattito sulla riforma dei reati che incidono sulla libertà di espressione e sul rapporto tra potere e critica politica, in un ecosistema mediatico dove l’autocensura, alimentata dall’incertezza legale, rischia di diventare una regola non scritta.
E riguarda anche noi. Perché il processo a Fatih Altaylı obbliga a interrogarsi sulla distinzione tra parola e minaccia, soprattutto quando la storia diventa strumento retorico per criticare il potere; obbliga a riflettere sul ruolo delle piattaforme come nuove emittenti e sulla vulnerabilità di chi fa giornalismo in contesti ostili; obbliga a chiedersi come gli ordinamenti possano tutelare il pluralismo senza trasformare la dignità delle cariche pubbliche in uno scudo penale contro il dissenso. La scena di quella sedia vuota, in un set che parla più di mille parole, racconta un conflitto universale tra potere e parola, tra diritto e interpretazione, tra storia e presente. E dice molto non soltanto sul destino di un giornalista, ma sulla tenuta stessa della discussione pubblica in un Paese cruciale, sospeso tra Europa e Medio Oriente.
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