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26 Novembre 2025 - 17:01
Steve Witkoff
La scena non supera i cinque minuti. Nell’audio, un uomo parla con sicurezza, come se avesse in mano la chiave per manovrare il presidente degli Stati Uniti. Il suggerimento è semplice e strategico: cominciare lodando il recente cessate il fuoco a Gaza, definire Donald Trump “un uomo di pace”, confezionare un quadro “in venti punti” come già accaduto in Medio Oriente. Non è un commentatore televisivo né un lobbista improvvisato. È Steve Witkoff, emissario della Casa Bianca, che il 14 ottobre 2025 spiega a Yuri Ushakov, storico consigliere diplomatico di Vladimir Putin, come strutturare una telefonata pensata per orientare il negoziato più esplosivo d’Europa: la guerra in Ucraina. La regia di quel contatto, insieme a una seconda chiamata tra Ushakov e Kirill Dmitriev, è finita nera su bianco dopo la pubblicazione di trascrizioni basate su registrazioni d’ascolto diffuse da Bloomberg. Mosca parla di guerra ibrida dell’informazione. Washington difende il suo uomo. Kiev osserva con allarme. L’Europa, ancora una volta, resta in controluce.

Nella prima telefonata, Witkoff non si limita a consigliare toni e linguaggi. Indica una strategia: agganciare l’idea di un “piano di pace in venti punti” alla narrativa del successo diplomatico in Medio Oriente, spingere Putin a contattare Trump prima della visita a Washington del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj, intervenire nel momento esatto in cui si decidevano nuovi trasferimenti di armamenti – inclusi missili Tomahawk – e si ridisegnava il perimetro politico del negoziato. Il giorno precedente, Trump aveva celebrato pubblicamente l’intesa su Gaza, e Witkoffsuggerisce di sfruttare quell’onda per proiettare l’immagine di un leader americano garante di una futura pace “globale”. La Casa Bianca non nega l’autenticità del materiale; il presidente derubrica il comportamento del suo emissario a “normale prassi negoziale”.
La seconda registrazione, quella tra Ushakov e Dmitriev, illumina l’altra metà del tavolo. Da Mosca si lavora a un documento in ventotto punti, costruito sulla base delle posizioni russe, da far arrivare informalmente a canali americani, così che possa essere venduto come un piano “made in USA” o “con input americani”. La funzione è chiara: far circolare un documento russo con un marchio di fabbrica diverso. Dmitriev nega tutto, parla di fake. Ushakov evita la smentita netta: sostiene che “qualcuno ascolta e fa filtrare, ma non siamo noi”, lasciando intendere che la fuga sia stata orchestrata per sabotare il riavvicinamento tra Mosca e Washington.
Dal presunto piano in venti punti alla versione in ventotto: cosa c’è dentro? Le trascrizioni non offrono un testo integrale, ma i contorni sono nitidi e allineati agli interessi del Cremlino. Riconoscimento delle conquiste territoriali russe, con riferimenti a Donetsk, Luhansk e alla già annessa Crimea; limitazioni strutturali alla capacità militare ucraina; un ridimensionamento o sospensione delle aspirazioni di Kiev verso la NATO. Alcune ricostruzioni parlano di una riduzione da ventotto a diciannove punti, come se qualcuno stesse limando il packaging, non la sostanza. Per l’Ucraina sarebbe una resa mascherata: accettare condizioni simili equivarrebbe a legalizzare la perdita di territori e a congelare il dossier strategico della sicurezza nel momento di massima vulnerabilità. Da Kiev arriva infatti un rifiuto netto di qualsiasi formula che implichi cessioni territoriali o neutralizzazioni forzate.
Ma chi è Steve Witkoff, il nome che agita Washington? Sviluppatore immobiliare, amico di lunga data di Donald Trump, passato da testimonial del trumpismo imprenditoriale a regista di trattative geopolitiche. È diventato in pochi mesi il volto operativo delle accelerazioni presidenziali, prima in Medio Oriente e poi sulla crisi ucraina. La sua forza sta nell’accesso personale, non nella carriera diplomatica. Per i sostenitori, è un negoziatore “non convenzionale” capace di sbloccare tavoli paralizzati. Per i detrattori, un emissario permeabile alla narrativa russa e privo degli anticorpi istituzionali necessari in una trattativa di questa portata. Il deputato repubblicano Don Bacon ne ha chiesto apertamente la rimozione, accusandolo di favorire Mosca. La Casa Bianca lo difende e rivendica la “flessibilità del canale”.
Al centro della rete dei contatti c’è Kirill Dmitriev, capo del Russian Direct Investment Fund, nome già noto ai dossier occidentali per la sua vicinanza diretta al vertice del potere russo. Nella conversazione attribuita da Bloomberg, Dmitriev si propone come l’uomo incaricato di confezionare il piano in ventotto punti “secondo la nostra posizione”, calibrarlo, distribuirlo informalmente negli ambienti americani così che il “marchio finale” sembri americano, non russo. Ha smentito tutto, ma l’assenza di una smentita netta dal Cremlino e il tono usato da Ushakov rendono più solida la percezione che almeno la bozza originaria del “piano americano” sia stata scritta a Mosca.
La reazione russa è rabbiosa: il leak sarebbe parte di una “guerra ibrida” pensata per affossare i canali di contatto appena riallacciati. Ushakov ricorda che i colloqui sono confidenziali e avvengono su linee sicure, lasciando trapelare che chi ha intercettato l’audio non è un intruso improvvisato ma un operatore ad alto livello. Dall’altra parte, la Casa Bianca minimizza: difende Witkoff, accredita la telefonata come tentativo di “preparare il terreno” e insiste sulla necessità di tenere aperto un canale con input sia russi sia ucraini. Due letture opposte dello stesso evento: per Mosca, un’operazione ostile; per Washington, un incidente di percorso.
E l’Europa? Invisibile, spettatrice, marginalizzata. Mentre Washington e Mosca discutono del futuro dell’Ucraina, l’Unione europea guarda dalla vetrina: pagherà il conto della ricostruzione, della sicurezza, della stabilità regionale, ma non siede davvero al tavolo dove si decide. È un’asimmetria già evidente da mesi. Il linguaggio sempre più transazionale della presidenza Trump, il voto americano su dossier contrari alle posizioni europee all’ONU, la crescente distanza strategica fotografano un fronte occidentale meno compatto di quanto la retorica suggerisca. La lezione è amara: l’Europa deve evitare di ritrovarsi con un “cessate il fuoco a condizioni russe” costruito altrove, e investire in deterrenza, munizionamento, industria della difesa se non vuole essere prigioniera dei fatti compiuti.
Resta un’area grigia, e tre domande. Chi ha intercettato e consegnato l’audio? L’assenza di byline e dateline nel pezzo di Bloomberg alimenta ipotesi che toccano ogni angolo: fratture nell’apparato russo, operazioni ucraine o occidentali, fughe americane. Nessuna è corroborata da prove pubbliche. Cosa c’è davvero nel piano in ventotto punti? Sappiamo gli assi portanti, ma non esiste un testo integrale verificabile. E il canale è ancora aperto? I segnali indicano che Witkoff conserva mandato, che nuovi contatti sono previsti e che missioni parallele verso Mosca e Kiev sono già in agenda. Per Trump, l’incidente non cambia la traiettoria: “normale negoziato”.
Per l’Ucraina il rischio è una pace “a tempo”, costruita per congelare il conflitto e non per risolverlo, un cessate il fuoco che certifica occupazioni de facto, limita la difesa e rimanda a garanzie politiche la sicurezza dei confini. Sarebbe la riedizione, in chiave ucraina, di altri dossier in cui la pace rapida serve più agli attori esterni che a chi subisce l’aggressione. Non stupisce che Kiev mantenga una posizione ferma.
Negli Stati Uniti, intanto, la politica interna ribolle. Le telefonate alimentano un dibattito già incandescente: l’ala repubblicana ostile a qualsiasi percezione di complicità con Putin critica metodi e merito del canale Witkoff; i democratici vedono l’ennesima conferma di un approccio che sacrifica principi in nome di risultati immediati. La Casa Bianca difende la logica del “testare vie alternative”, purché includano Kiev, ma la posta in gioco è concreta: dai prossimi voti del Congresso su aiuti e sanzioni dipenderà la forza negoziale dell’Ucraina.
Una cosa emerge con chiarezza dal lessico delle chiamate: l’arte del framing. Chiamare Trump “uomo di pace”, agganciare l’Ucraina al “modello Gaza”, trasformare una guerra d’annessione in una questione di “punti”, “concessioni”, “equilibri”: è un modo per vestire la realtà con una simmetria che non esiste. Sul terreno c’è un aggressore e un aggredito, città colpite, milioni di sfollati. La parola “pace” può essere un ponte o una trappola. Per questo i richiami a verifiche, ritiri, garanzie multilaterali non sono pedanteria: sono la differenza tra una tregua reversibile e un accordo che regge.
C’è una lezione che colpisce più di altre: l’Europa deve smetterla di inseguire e tornare a plasmare. Finché l’architettura della sicurezza del continente sarà disegnata tra Washington e Mosca, con Kiev chiamata a giochi fatti, l’Unione europea resterà un attore pagatore e non decisore. Per invertire la rotta servono risorse, produzione comune di munizionamento, una linea rossa condivisa contro la legalizzazione delle annessioni e un percorso vincolante su sicurezza dei confini, prigionieri, ricostruzione, giustizia. È l’opposto della diplomazia frettolosa che archivia i dossier per chiuderli, non per risolverli.
Ora gli occhi sono puntati su pochi indicatori chiave: il prossimo “non paper”, le mosse sul terreno, la postura americana al Congresso. Dettagli che diranno se questo negoziato è reale o solo la scenografia di una pace confezionata per esigenze politiche.
Le telefonate trapelate non sono un thriller di spionaggio, ma la radiografia di un metodo: costruire cornici emotive, accelerare tempi, vendere la pace rapida come unica opzione “realistica”. Il giornalismo fa ciò che deve: consegna nomi, frasi, date, incastri. Alla politica resta il compito più difficile: evitare che l’etichetta seppellisca la sostanza. Una pace vera in Ucraina non può nascere da un testo travestito, né da un documento riscritto per cambiarne il passaporto diplomatico. Può nascere solo da un accordo che rispetti il diritto internazionale, tuteli la sovranità di Kiev e preveda meccanismi di verifica che non lascino margini all’ambiguità. Tutto il resto è scenografia.
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