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Ivrea riscopre Domenico Burzio: il genio operaio che ha costruito la prima Olivetti

Dal fuoco della fucina al ruolo di direttore tecnico: la città candida al bando nazionale un progetto per celebrare i 150 anni dalla nascita dell’uomo che trasformò i sogni di Camillo Olivetti in ingranaggi, macchine per scrivere e progresso

Ivrea riscopre Domenico Burzio: il genio operaio che ha costruito la prima Olivetti

Ivrea riscopre Domenico Burzio: il genio operaio che ha costruito la prima Olivetti (foto Archivio storico Olivetti)

A volte, nelle storie delle città, i protagonisti veri non sono quelli finiti sui manuali, ma quelli che hanno costruito con le mani ciò che gli altri hanno immaginato. A Ivrea uno di questi si chiamava Domenico Burzio, nato nel 1876, morto troppo presto nel 1932, ricordato da chi lo conobbe come un uomo «di officina e di cuore», un artigiano dal talento naturale che seppe trasformarsi in direttore tecnico della prima Olivetti quando la parola “industria” significava ancora sudore, olio, martelli e notti insonni passate a far girare le macchine. Un uomo silenzioso, schivo, concreto: uno che parlava poco, ma che dentro alle macchine sapeva leggere come dentro alle persone.

Ora la città vuole riportarlo alla luce. Con la delibera n. 362 del 21 novembre 2025, la Giunta comunale ha deciso di candidare al bando nazionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri il progetto “150° Domenico Burzio. Celebrare l’ingegno operoso”, un’iniziativa che punta a ricordare un uomo che fu molto più di un collaboratore di Camillo Olivetti: fu il suo braccio destro, il suo uomo di fiducia, forse l’unico vero amico. Non è un dettaglio: lo disse lo stesso Camillo nel 1933, ricordando il primo incontro tra i due. «Nell’autunno 1894, nella mia villa di Monte Navale, avevo intrapreso un breve corso elementare di elettricità per operai… Il più giovane era un ragazzo di diciotto anni… Domenico Burzio… così ebbi il primo contatto con quella persona che più tardi divenne il mio migliore collaboratore».

Non c’erano università, diplomi o laboratori nella vita del giovane Burzio. C’era invece la fucina di Ivrea, dove entrò da ragazzo come fucinatore, lavorando torchi per l’uva. A fine Ottocento era un mestiere durissimo, fatto di fuoco e metallo, ma fu lì che Burzio sviluppò una manualità fuori dal comune e quell’intelligenza pratica che avrebbe segnato tutto il suo futuro. E mentre altri cercavano fortuna altrove, lui non aveva paura di bussare alle porte giuste: nel 1895 si presentò nuovamente a Camillo Olivetti, che stava avviando la produzione di strumenti di misurazione elettrica. Gli chiese lavoro, gli chiese una possibilità, con la determinazione di chi – se non fosse andata bene – era pronto a emigrare in America.

Domenico Burzio (1876-1932), primo Direttore Tecnico della Olivetti, ritratto di fronte alla vecchia sede della fabbrica di Ivrea negli anni '20.

Domenico Burzio (1876-1932), primo Direttore Tecnico della Olivetti, ritratto di fronte alla vecchia sede della fabbrica di Ivrea negli anni '20 (foto Archivio Storico Olivetti)

Camillo vide in lui ciò che spesso sfugge agli sguardi superficiali: la stoffa dell’uomo affidabile. Gli propose di assumerlo come conduttore della caldaia, ma solo dopo aver conseguito il diploma di fuochista. Burzio non esitò un secondo. Studiò, superò l’esame, e nell’aprile 1896 entrò nella CGS, la futura Olivetti. In pochi mesi divenne il punto di riferimento del gruppo operaio. Quando l’impresa si trasferì temporaneamente a Milano nel 1903, gli operai erano già una cinquantina e Burzio era considerato il capo naturale: quello che sapeva aggiustare tutto, organizzare tutto, capire tutto.

Così Burzio entrò in fabbrica dalla porta più bassa, come fuochista della caldaia. Ma la sua voglia di imparare era più forte del carbone: di notte smontava e rimontava macchinari, osservava i tecnici americani, copiava, chiedeva, provava. Nel giro di pochi anni Camillo Olivetti capì che nessuno, in quel gruppo di pionieri dell’industria italiana, aveva la sua stessa capacità di far funzionare le cose davvero. E così, quando nel 1908 nacque la prima fabbrica di macchine per scrivere Olivetti, Burzio divenne primo Direttore Tecnico.

In un’epoca in cui le gerarchie erano rigide e i titoli contavano più delle mani, Burzio rappresentò una rivoluzione: un operaio che diventava direttore grazie al talento e alla fiducia. Nelle officine era rispettato, temuto quando serviva, ascoltato sempre. Il suo era un comando che veniva dal basso: conosceva i bisogni degli operai, parlava la loro lingua, sapeva quanto costava vivere con una paga settimanale e quanto potesse pesare un guasto alla macchina su una famiglia che avanzava a fatica. Era severo, sì. Ma era uno che aveva camminato nella stessa polvere degli altri. E questo, in fabbrica, valeva più di mille ordini.

Quando nel 1920 prese forma la M20, la macchina per scrivere che avrebbe portato la Olivetti sul mercato internazionale, dietro quel perfezionismo meccanico c’era anche lui. Dietro ogni vite, ogni leva, ogni scelta produttiva, c’era una visione industriale che univa manualità e ingegno. E non solo: nel 1925 accompagnò un giovane Adriano Olivetti in un viaggio negli Stati Uniti. Visitò fabbriche, osservò metodi nuovi, respirò il futuro dell’industria mondiale. Tornò a Ivrea con gli occhi pieni di modernità e la testa piena di soluzioni. Di lì a poco, quei metodi avrebbero trasformato l’Olivetti in un’azienda simbolo dell’efficienza e dell’organizzazione.

La delibera della Giunta ricorda che Burzio rappresenta «l’ingegno, la comunità dei lavoratori, l’importanza dello studio e l’etica del lavoro», valori che ancora oggi definiscono Ivrea come patrimonio UNESCO della “Città industriale del XX secolo”. Ma quei valori, per Burzio, non erano slogan: erano la sua vita quotidiana. Erano le mani sporche di olio, gli appunti presi la sera ai corsi serali di elettrotecnica, l’attenzione ai lavoratori che bussavano al suo ufficio non per un ricambio, ma per un problema familiare.

La sua morte nel 1932 fu un colpo durissimo per tutta l’azienda. Camillo Olivetti, profondamente scosso, istituì subito il Fondo Domenico Burzio per aiutare i dipendenti in difficoltà: un gesto che dice più di tante parole sull’importanza di quell’uomo nell’universo olivettiano. Camillo, nel suo discorso commemorativo, lo disse senza girarci attorno: era stato per lui «l’unico amico».

E allora ecco il senso del progetto che Ivrea vuole portare a Roma: non solo una celebrazione formale, non solo una ricorrenza di calendario. Ma un’occasione per raccontare ai giovani chi era l’uomo che, con la forza delle mani e l’intelligenza del cuore, contribuì a costruire la storia industriale italiana. Un uomo che, partito dal nulla, divenne direttore tecnico di un’azienda che avrebbe cambiato la cultura del lavoro in Europa.

Il progetto vale 37 mila euro, di cui il Comune ne coprirà 13.500 se il bando verrà vinto. Soldi spesi per riportare al centro un protagonista che, senza chiedere onori, ha fatto la storia di questa città. Una storia fatta di ferro caldo, sogni possibili, e della straordinaria, silenziosa grandezza di un uomo che non ha mai smesso di credere nel lavoro come riscatto e come futuro.

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