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25 Novembre 2025 - 17:08
Sarah Disabato e Igor, la cornacchia albina
Le morti del falco pellegrino e della cornacchia albina non sono rimaste chiuse dentro l’Oasi degli Animali. Nel giro di pochi giorni sono finite sui banchi del Consiglio regionale, trasformandosi in un caso politico che punta dritto al cuore – anzi, allo strappo – del sistema di tutela della fauna in Piemonte. Tutto nasce da quelle tre detonazioni esplose a pochi metri dalle voliere, alle 9.30 di un sabato qualunque, quando il parco era ancora chiuso e Giada Brandimarte e Diego Caranzano stavano iniziando il giro dei recinti. Tre colpi, una manciata di secondi, e due vite spezzate non dai proiettili, ma dal terrore. Due animali affidati, curati, recuperati. Due animali che non dovevano più rischiare nulla. E invece.
Il falco pellegrino era arrivato dal Canc di Grugliasco dopo mesi di cure. La cornacchia albina, Igor, era la mascotte del parco, un animale che in natura sarebbe morto in poche ore a causa del piumaggio bianco, perfetta calamita per ogni predatore. All’Oasi aveva trovato un riparo che sembrava definitivo. Invece è crollato a terra senza un graffio, come il falco: morti entrambe per shock acuto da spavento, un collasso provocato dal fragore dei fucili. Un dettaglio che non ha bisogno di perizie sofisticate: basta entrare nelle voliere nei minuti successivi, vedere gli animali tremare, sentire il vuoto improvviso nei rami, guardare Giada con il falco fra le mani che si spegne, senza poter fare nulla.
Non era la prima volta. Due anni fa cinque animali erano stati trovati morti in un solo giorno, compresa una civetta delle nevi. La volta precedente i colpi erano stati esplosi dentro il perimetro dell’Oasi, con i visitatori presenti che avevano testimoniato la scena ai carabinieri. E i segni di un’attività venatoria troppo vicina erano chiari già da tempo: persone viste caricare un cinghiale morto nel parcheggio del parco, in pieno giorno. Un confine sottile, quasi inesistente, fra un luogo che cura animali fragili e un territorio dove è consentito sparare.
L’interrogazione presentata dalla capogruppo M5S Sarah Disabato parte da qui. Parte dal fatto che il falco e Igor non sono, come scrive lei stessa, “casi isolati”, ma la punta di un fenomeno che negli anni ha mostrato crepe profonde: animali che muoiono di paura, visitatori che scappano all’improvviso, colpi esplosi a distanza ravvicinata, denunce fatte e spesso rimaste senza seguito. L’Oasi, incastonata tra boschi e terreni agricoli, collabora da anni con Asl, Cites, Canc, una filiera della cura che regge solo se intorno c’è un minimo di protezione. Ma proprio attorno al parco insiste un’area venatoria autorizzata. Ed è qui che la geografia smette di essere cartografia e diventa contraddizione politica.

Il falco pellegrino affidato dal Canc di Grugliasco
Le auto dei cacciatori salgono da via Nobiei, una strada stretta, chiusa dopo l’alluvione del 17 aprile, percorribile quasi solo dai residenti. I visitatori del parco invece parcheggiano in basso, a Casalborgone, e raggiungono l’Oasi a piedi. Due mobilità opposte. Una struttura votata alla cura da una parte, chi arriva per cacciare dall’altra. In mezzo, qualche metro di bosco. Giada e Diego lo ripetono da giorni: «Sembrava il far west». Una frase che potrebbe sembrare iperbolica, e invece basta guardare la mappa per capire che non lo è. La contiguità è reale, fisica, quotidiana. Le voliere dei rapaci sono a una distanza che, per l’attività venatoria, è considerata regolare. Per animali con storie cliniche delicate, no.
La mattina degli spari ha messo in luce anche un altro punto: il vuoto operativo. I gestori hanno chiamato i carabinieri di Casalborgone, ma non c’erano pattuglie disponibili. I forestali erano impegnati altrove. Chivasso e la stessa Casalborgone sono state allertate per raccogliere la denuncia. Giada e Diego non potevano lasciare il parco: sono in due, vivono lì, e avevano gli animali da assistere mentre i visitatori stavano per arrivare. Una scena che racconta più di mille relazioni istituzionali: una famiglia che gestisce un centro di recupero riconosciuto, in un momento di emergenza, senza nessuno che possa intervenire subito. Non per mancanza di volontà, ma per una filiera della vigilanza che non tiene conto della fragilità di luoghi come questo.
Di fronte a tutto questo, la Giunta regionale per bocca, pardon penna, dell'assessore Paolo Bongioanni ha risposto all’interrogazione con un testo che elenca la normativa, ripete le distanze di sicurezza e ribadisce i divieti previsti dalla legge 157/1992. Una risposta tecnica, quasi notarile, che non tocca mai il cuore del problema: la compatibilità. Sì, la legge vieta di sparare entro 150 metri dalle abitazioni con armi a canna liscia. Sì, esistono distanze proporzionali alla gittata delle armi. Sì, è prevista la vigilanza faunistico-venatoria. Ma tutto questo è già scritto da trent’anni. Non spiega perché due animali siano morti per paura. Non spiega come sia possibile che un’area dedicata alla cura della fauna sia circondata da zone in cui è consentito sparare. Non spiega cosa intenda fare la Regione, ora che il problema è emerso in tutta la sua gravità.
L'assessore parla di materia “ampiamente regolata”, di divieti già esistenti, di funzioni divise tra Regione e Province. Una ricostruzione impeccabile dal punto di vista normativo, ma incapace di incidere sulla realtà concreta dell’Oasi. Il testo si chiude con un riferimento alla possibilità, d’intesa con gli enti competenti, di valutare una revisione delle aree venatorie o un rafforzamento della vigilanza. Non un impegno, non una scelta, non una strada. Una formula sospesa, che sembra fatta apposta per non scontentare nessuno. Una frase che sta a metà tra l’ammissione implicita della criticità e il rifiuto esplicito di intervenire.
Eppure, come ricorda l’interrogazione, non c’è solo l’Oasi degli Animali. Segnalazioni analoghe sono arrivate anche da santuari, Cras, centri di recupero sparsi in tutto il Piemonte. Luoghi che vivono della cura, spesso sostenuti da volontari, veterinari, enti locali, e che lavorano in rete con strutture specializzate come il Canc dell’Università di Torino. Strutture che rappresentano l’ultimo passo prima del rilascio di animali recuperati o, nei casi più complessi, l’unico luogo in cui possano trascorrere una vita dignitosa. Se queste strutture non sono considerate ambienti da proteggere con fasce di rispetto, ogni discorso sulla tutela della fauna rischia di trasformarsi in una dichiarazione d’intenti senza ricadute reali.
Dentro questa rete, l’Oasi ricopre un ruolo che va oltre l’accoglienza. È un terminale indispensabile di un percorso clinico, biologico e amministrativo. Gli animali che arrivano dal Canc vengono stabilizzati, curati, monitorati. All’Oasi trovano continuità, spazio, routine. La Cites assicura la tracciabilità e la tutela legale. Le Asl verificano le condizioni di salute. I cittadini segnalano. Le forze dell’ordine intervengono quando possibile. Una catena complessa che funziona solo se ogni punto è stabile. Se vicino alle voliere risuonano colpi di fucile, la catena salta. E non salta solo perché muoiono gli animali: salta perché viene meno la fiducia nel sistema, perché chi lavora ogni giorno con la fauna recuperata non può operare in un contesto percepito come ostile.
La storia personale di Giada e Diego non è un dettaglio di colore, ma la misura del peso che questo episodio ha avuto. Quattro anni fa hanno lasciato Crescentino per trasferirsi all’Oasi con i figli Eros e Greta. Hanno costruito la loro vita lì, con una dedizione che non è semplice gestione di una struttura, ma un modo di vivere. Il figlio maggiore studia agraria e aiuta ogni giorno. La piccola si sveglia e vede scoiattoli sugli alberi. È una famiglia che ha scelto di dedicarsi alla cura di animali che nessuno può liberare, che non sopravviverebbero in natura. Per questo la morte del falco e di Igor è uno squarcio difficile da rimarginare: non un incidente, non una fatalità, ma un punto di rottura.
Nel commento che Disabato affida alla discussione politica, il giudizio è netto: queste morti non sono un caso isolato. “Da parte di numerose strutture che si occupano di tutela e cura degli animali, a partire dai Santuari per arrivare ai CRAS, abbiamo ricevuto numerose segnalazioni di casi simili.” Una frase che inchioda la Regione davanti a una scelta: ignorare un fenomeno che si ripete o affrontarlo rivedendo quello che oggi appare un paradosso, cioè permettere l’attività venatoria a ridosso di luoghi dedicati alla cura della fauna. Il Movimento 5 Stelle chiede fasce di rispetto: zone in cui non si possa sparare, create attorno alle strutture sensibili. Disabato è chiara: “È fondamentale istituirle al più presto, così da garantire ai volontari e alle volontarie la possibilità di operare in tranquillità e agli animali di vivere in piena sicurezza, senza il rischio di morire per traumi acuti causati dagli spari dei cacciatori.”
A oggi, però, la risposta della Giunta rimane quella messa agli atti: una ricognizione della legge, la riaffermazione dei divieti esistenti, nessun passo concreto. Come si può proteggere davvero un luogo così, se a pochi metri è consentito sparare? È una domanda a cui, per ora, la politica non ha dato risposta.
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