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Vietnam sommerso: 90 morti in una settimana di pioggia mai vista

Le inondazioni tra Centro e Altipiani centrali sconvolgono il Paese: fiumi oltre i record storici, città isolate, produzione agricola devastata e oltre 60 vittime solo a Dak Lak. Cresce la paura che questa sia ormai la nuova normalità climatica.

Vietnam sommerso: 90 morti in una settimana di pioggia mai vista

Vietnam sommerso: 90 morti in una settimana di pioggia mai vista

Era rimasto soltanto il tetto, una zattera di lamiera sospesa nel buio. Su quei pannelli ondulati, senza elettricità né vie di fuga, un contadino di Dak Lak e sua moglie hanno trascorso due notti ad ascoltare il rombo dell’acqua che trascinava via recinzioni, animali, sacchi di caffè appena essiccato. Attorno non era rimasto più nulla, solo fango e corrente. «A un certo punto ho smesso di avere paura», ha raccontato poi, «pensavo solo che non saremmo usciti vivi». Non era un’esagerazione. Entro la mattina di domenica 23 novembre 2025 il bilancio ufficiale delle inondazioni che hanno colpito il Centro e gli Altipiani centrali del Vietnam dal 16 novembre è salito ad almeno 90 morti e 12 dispersi, con oltre 60 vittime concentrate in una sola provincia, Dak Lak. Un disastro che ha sommerso intere città, interrotto ferrovie e strade nazionali, paralizzato produzione e collegamenti, mettendo in difficoltà le autorità e le forze armate.

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Dal 16 novembre un muro d’acqua ha colpito in sequenza la fascia centrale del Paese: da Khánh Hòa a Đắk Lắk, da Gia Lai a Lâm Đồng, fino a Huế e Đà Nẵng. In alcune località i pluviometri hanno registrato oltre 1.900 millimetri in pochi giorni, quasi un anno di precipitazioni riversato in una sola settimana. I fiumi Ba e Cái hanno superato record storici, travolgendo argini, allagando quartieri, trascinando ponti, linee ferroviarie e tratti interi di autostrade. Le frane hanno seppellito veicoli, isolato villaggi, complicato i soccorsi. Giovedì 20 novembre si contavano 41 morti e 9 dispersi; ventiquattr’ore dopo i decessi erano già 55. Poi la brusca impennata: tra sabato 22 e domenica 23 novembre il recupero dei corpi ha portato il totale a 90 vittime. Un incremento rapido, figlio di piene improvvise, cedimenti di versanti e difficoltà a raggiungere le aree più isolate.

A Dak Lak, territorio produttivo e strategico per il caffè robusta, la devastazione è stata massima. Fiumi e torrenti trasformati in corridoi impetuosi hanno superato i livelli del 1993 in diverse stazioni, invadendo zone residenziali e impianti di lavorazione con acqua alta fino a tre metri. Le piene hanno interrotto assi fondamentali: la Strada nazionale 29, la 25 e la Truong Son Dong, tutte rese impraticabili da colate di detriti. Migliaia di persone sono rimaste bloccate per ore, alcune per giorni. Le autorità hanno dispiegato elicotteri per lanci di aiuti, imbarcazioni per raggiungere le case isolate, squadre dell’esercito e della polizia coordinate con la Protezione civile. In quattro comuni l’acqua è rimasta alta anche dopo la fine delle piogge; migliaia di famiglie sono state evacuate e molte scuole si sono trasformate in centri di accoglienza con ambulatori temporanei. La rete elettrica, danneggiata in molte aree, ha reso ancora più difficile comunicare e rintracciare i dispersi.

La catastrofe ha toccato anche la costa. A Nha Trang e lungo le vallate verso il mare, l’acqua ha invaso quartieri interi, sommergendo la ferrovia e bloccando convogli passeggeri. Le aree industriali tra Khánh Hòa e Ninh Thuận sono diventate isole irraggiungibili: fabbriche vietnamite, tedesche e sudcoreane hanno sospeso la produzione. Nell’interno, in province come Quảng Ngãi, ponti e scavalchi sono crollati isolando comunità di migliaia di abitanti. La melma ha reso impraticabili molte strade, obbligando i soccorsi a muoversi solo con gommoni e pick-up.

Il fango, oltre a essere la traccia visibile della distruzione, è anche una minaccia sanitaria. L’acqua stagnante favorisce leptospirosi, dengue e gastroenteriti; le reti fognarie danneggiate richiedono distribuzione di pastiglie potabilizzanti e cisterne. Oltre 80.000 ettari di risaie e coltivazioni risultano danneggiati o distrutti; più di 3,2 milioni di capi tra allevamento e avicoltura sono stati perduti; 1.100 ettari di acquacoltura sono compromessi. Il conto economico provvisorio parla di 8,98 trilioni di dong, circa 341 milioni di dollari, tra infrastrutture, case, scuole, ospedali, reti elettriche e idriche. Una stima destinata a crescere: solo con il deflusso completo dell’acqua sarà possibile verificare la stabilità delle strutture.

Gli scienziati lo ripetono da anni: il cambiamento climatico intensifica gli eventi estremi in tutto il Sud-Est asiatico. L’atmosfera più calda trattiene più vapore acqueo, e quando le condizioni si combinano la pioggia cade in modo sempre più violento. Il Vietnam, stretto tra il Mar Cinese Meridionale e la catena Annamita, è esposto come pochi: un terzo della popolazione vive in aree vulnerabili a alluvioni e frane. Le piogge di novembre arrivano dopo mesi di anomalie meteorologiche, con terreni saturi incapaci di assorbire ulteriori precipitazioni. Gli esperti parlano ormai di una “nuova normalità”, e pianificare senza tenerne conto significa condannarsi a danni crescenti.

Si aprono intanto tre dossier strategici. Il primo è il caffè: il Tây Nguyên produce una gran parte del robusta mondiale, indispensabile all’industria del solubile e a molte miscele commerciali. Le alluvioni giunte nel pieno della raccolta rischiano di ridurre l’offerta, danneggiare gli stock e peggiorare la qualità, soprattutto se si diffonderanno malattie fungine. Il secondo dossier è il turismo: le immagini di Hoi An allagata, dei lidi di Nha Trang e Quy Nhon ricoperti di fango, dei resort raggiungibili solo in barca rischiano di frenare la stagione. Il terzo riguarda la logistica: la sommersione della ferrovia e di arterie come la NH1 ha interrotto il flusso di merci dalle zone interne ai porti, rallentando rifornimenti e spedizioni. Per molte aziende internazionali diventa chiaro che servono rotte alternative e scorte di sicurezza.

Nel pieno dell’emergenza il governo ha mobilitato decine di migliaia di persone tra militari, polizia, Guardia di frontiera e tecnici delle dighe. Gli elicotteri hanno lanciato acqua, cibo e coperte; i convogli hanno cercato di riaprire varchi; i volontari hanno assistito gli sfollati nei centri di accoglienza. In località come Yang Mao sono stati allestiti ambulatori con cinque medici per garantire cure immediate. È un apparato di soccorso collaudato, ma messo a dura prova dalla simultaneità delle criticità.

Nelle prime ore, tra confusione e dati incompleti, le cifre sono cambiate più volte. Ma con il passare dei giorni le fonti hanno iniziato a convergere. Le principali testate internazionali — dall’AP al Guardian, da Philstar a The Star, fino ai portali vietnamiti VnExpress e VOV — hanno incrociato i bollettini della Direzione nazionale per argini e prevenzione dei disastri. Il bilancio di 90 morti e 12 dispersi al 23 novembre è oggi il riferimento più solido, pur con la certezza che potrà aggiornarsi quando i soccorsi raggiungeranno le zone più isolate.

Intanto, mentre l’acqua si ritira, affiorano le storie delle comunità colpite. A Dak Lak i coltivatori guardano campi distrutti sapendo che servirà un intero ciclo agricolo per ripartire. Nei quartieri di Nha Trang e Quy Nhon si tenta di salvare qualche mobile, si contano danni, si cercano documenti e fotografie. Nelle zone interne famiglie come quella del contadino rimasto due notti sul tetto cercano di ricostruire ciò che era la loro quotidianità. E nelle sale operative ingegneri e tecnici analizzano le curve di piena, confrontano i dati con le previsioni, valutano la resistenza di dighe e argini: perché il prossimo episodio potrebbe non essere lontano.

Il Vietnam ha dimostrato più volte la capacità di rialzarsi e ricostruire in tempi rapidi strade, scuole e linee elettriche. Ma la frequenza degli eventi estremi aumenta più velocemente della capacità di recupero. La domanda non è se il Paese riuscirà a riprendersi — accadrà — ma quanto peserà ogni volta e chi ne sosterrà il costo. Le alluvioni di novembre lasciano un avvertimento chiaro: senza integrare davvero il rischio climatico in ogni decisione pubblica e privata, il prossimo disastro presenterà un conto ancora più alto. E a pagarlo saranno, inevitabilmente, i più fragili.

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